Cos’è un graphic novel e in che modo, questo insolito prodotto editoriale, ha influito nello sviluppo di una moderna concezione del fumetto?
Oggi, all’interno della rubrica Nuvole di Fumo, cercheremo di trovare una risposta a queste domande.
Nel corso del XX secolo, sottoposto a una serie tangibile d’influenze culturali, il fumetto ha saputo reggere al confronto con la crescente complessità dei processi di comunicazione.
Il linguaggio fumettistico, infatti, basato sulla sinergia tra codice verbale e codice iconico, ha assunto piena consapevolezza dei propri mezzi espressivi già nel secondo dopoguerra, quando, collocandosi interamente nella dimensione di una “cultura di massa” ormai non più agli albori, ha sviluppato tutti gli elementi necessari per affermarsi come fenomeno artistico, allargando progressivamente la propria utenza e diversificandosi stilisticamente in una moltitudine di generi.
Al pari della televisione e del cinema (con quest’ultimo, in particolare, ha degli evidenti punti di contatto), il fumetto fa leva su un’enorme possibilità di sperimentazione visiva, linguistica e narrativa, richiedendo, al contempo, un certo grado di cooperazione da parte del lettore/spettatore.
Nonostante il fumetto sia riuscito a guadagnarsi col tempo un posto di rilievo tra i più comuni media, non è difficile immaginare in che modo abbiano avuto origine gran parte dei giudizi negativi e delle accuse che lo hanno accompagnato dal momento in cui ha conosciuto una maggiore diffusione.
In un periodo di importanti fermenti culturali, infatti, un linguaggio spurio, nato dalla commistione di più codici come quello fumettistico, che fornisse un tipo di intrattenimento facilmente accessibile anche in casi di scarsa scolarizzazione, era da tenere a debita distanza da quella considerata la cultura “alta”.
Inoltre, alcuni tipi di strisce a fumetti pubblicate inizialmente sulle pagine dei giornali o in vari supplementi si prestavano in maniera efficace e diretta a una forma di satira aggressiva e spudorata, non ben vista in molti ambienti politici e culturali.
Più volte etichettati semplicemente come letture infantili e allo stesso tempo profondamente diseducative per i giovani, i fumetti sono stati considerati “attentatori” di valori morali e civili, portatori di un nuovo tipo di analfabetismo.
Provare a superare un tale livello di diffidenza è impresa tutt’altro che semplice.
Oggi che il fumetto ha raggiunto, oltre ad elevati picchi di diffusione, anche una piena maturità artistica, giudizi di questo tipo non sono ancora così rari.
Tra gli intellettuali che maggiormente hanno contribuito a uno sdoganamento culturale del fumetto, ci sono senza dubbio lo scrittore e semiologo Umberto Eco e il critico Oreste del Buono.
Il primo ha rilevato un radicale rovesciamento delle gerarchie culturali per mezzo di un nuovo modo di fare e concepire il fumetto, tale da elevarlo a “forma di cultura alta, perfino difficile da leggere”.
Riferendosi poi al suo saggio del 1964, “Apocalittici e integrati”, in cui prendeva in esame il tema della cultura di massa e i suoi mezzi di comunicazione, Eco ha dichiarato provocatoriamente: “[…] Quindi quelli che una volta erano i mezzi di massa, contro cui si scagliavano gli apocalittici, oggi possono essere interpretati solo da gente che ha letto Joyce”.
Quel nuovo modo di concepire il fumetto che intende Eco, superando le logiche seriali tipiche dei comics (ma non solo) e portandosi fuori dalla produzione supereroistica, in realtà, ha tra i suoi pionieri autori come Will Eisner o Hugo Pratt, creatore dell’indimenticabile Corto Maltese.
“Contratto con Dio” di Eisner, del 1978, è convenzionalmente ritenuto il primo graphic novel nella storia del fumetto, anche se questa locuzione mutuata dall’inglese non è stata coniata dall’autore cui deve la sua fama, né appare priva di una certa ambiguità di fondo.
Quello che sempre più comunemente si definisce graphic novel (e per il quale resta corretto il genere maschile, sebbene nell’uso si attesti spesso quello femminile), è in realtà un prodotto editoriale sulla cui natura artistica le opinioni critiche variano molto.
Tra queste la più radicata e discussa vuole che un graphic novel (tradotto come “romanzo grafico” o “romanzo a fumetti” in italiano) abbia esito autoconclusivo e forma non seriale, che sia diretto al mercato librario e quindi si distingua anche nella qualità dei materiali di pubblicazione, che affronti tematiche più adulte, presentando un carattere più spiccatamente letterario.
Questa definizione ha dei grossi limiti e dà adito a numerose contraddizioni nel tentativo di stabilire cosa vada sotto la denominazione di graphic novel e cosa no. Si pensi al celebre “Watchmen” di Alan Moore, concepito per essere una miniserie a fumetti, ma riconosciuto unanimemente come uno dei più influenti graphic novel della storia.
Inoltre l’espressione sembra aver alimentato anche una tendenza inversa a quella che etichettava l’insieme della produzione fumettistica come indegna dell’attenzione che si riserva solitamente alle arti più “nobili”.
In questo senso, dietro l’uso indiscriminato della parola graphic novel, si celerebbe una sorta di disagio nell’ammettere che l’oggetto di cui si sta parlando, per quanto dotato di un riconosciuto valore artistico, sia un fumetto. Un tentativo malcelato e ipocrita di nobilitare agli occhi di una critica letteraria spesso intransigente quello che resta un prodotto della cultura popolare.
La soluzione è forse più semplice di quanto sembri e consisterebbe nel riconoscere che la dignità del medium fumetto non necessiti di essere affermata ogni volta attraverso l’uso di parole culturalmente e socialmente più accettabili, ma giudicandone il valore intrinseco, come si farebbe per una qualsiasi altra opera d’arte.
Luciana Tranchese