Afrin, Rojava, Siria, 68esimo giorno di resistenza. L’attacco di Erdoğan e dei jihadisti del Free Sirian Army al cantone non si è più fermato da quando è iniziato lo scorso 20 gennaio. E mentre la città si riempie di abitanti politicamente scelti da Erdoğan, centinaia di migliaia fra curdi, assiri, armeni, arabi, siriani sono in fuga. Sono gli sfollati, i rifugiati del futuro, quelli che Erdoğan deve bloccare alle porte dell’Europa, ma che lui stesso ha provocato.
«La situazione è drammatica: sono 167.000 le persone in fuga, non hanno un tetto sopra la testa, non hanno acqua né cibo. Alcuni sono stati sistemati nelle scuole, nelle case di chi poteva ospitarli o in case vuote, ma la maggior parte non ha potuto». A parlare di Afrin è Davide Grasso, torinese, ex combattente YPG in Siria: «La popolazione ora si trova in gran parte nel distretto di Şerawa (distretto del cantone di Afrin), ad est in direzione di Aleppo, e nella regione di Shehba, ancora più a est. Sono gli unici due fazzoletti di terra non ancora occupati e lì si è radunata gran parte degli sfollati».
Davide è tornato dalla Siria, dove è stato due volte, lo scorso novembre. Ma non per questo ha smesso di militare. Continua a mobilitarsi e ad informare riguardo ciò che sta accadendo anche grazie ai suoi contatti con le forze rivoluzionarie che si trovano nella regione di Shehba e nei cantoni vicini, quelli di Kobane e Cizire. Ma la sua rivoluzione è anche raccontare ciò che ha visto e lo ha fatto attraverso il libro che ha scritto al suo ritorno, Hevalen, in cui racconta la sua decisione di combattere l’ISIS e di supportare il progetto politico della Federazione della Siria del Nord.
La situazione umanitaria che dipinge, dopo l’ingresso delle milizie jihadiste ad Afrin del 18 marzo, è apocalittica: «Non c’è alcun aiuto internazionale, nessuna organizzazione che dia supporto, neanche aereo». La popolazione cerca di auto-organizzarsi e l’unica organizzazione presente sul campo è l’ONG Heyva Sor A Kurd, conosciuta in Italia come Mezzaluna Rossa Curda, che in questo momento cerca di dare rifugio e aiuto medico-sanitario agli sfollati, e che è la sola a cui è possibile fare una donazione per aiutare materialmente i civili lì nel nord della Siria. Molti dormono in macchina o direttamente in strada e in generale mancano tutti i beni di prima necessità.
Il piano di Erdoğan: pulizia etnica e politica. Oltre Afrin?
Una situazione che sembra non essere di breve risoluzione, dal momento che Erdoğan ha dato il via ad un piano di pulizia etnica e ripopolamento del territorio. Come riferito da Uiki Onlus, «Erdoğan ha confermato il sospetto che Afrin verrà ripopolata con persone provenienti dall’esterno. […] Si vogliono insediare circa 250-400.000 persone provenienti da Kilis, Hatay e Antep. Queste persone vengono definite “di Afrin”, ma di chi si tratti veramente non è stato indicato. Lo Stato turco da molto tempo cerca di modificare la demografia della regione attraverso la pulizia etnica».
Anche Davide Grasso è dello stesso avviso, ma aggiunge che si tratta anche di una «pulizia politica, perché Erdoğan vuole mandare un messaggio alla popolazione curda: i curdi possono far parte del progetto neo-ottomano solo se si sottomettono ad una certa concezione della società e della religione».
Ad Afrin, invece, «baluardo della cultura del Kurdistan ma anche di una tradizione comunista», aveva preso vita un esperimento politico, sociale, culturale completamente diverso da quello voluto Turchia di Erdoğan. C’era una concreta convivenza fra popoli, dove non solo i curdi, ma anche gli arabi, gli assiri, gli armeni ed altri avevano deciso di vivere autogovernandosi, ispirandosi all’idea di confederalismo democratico e mettendo al centro la liberazione della donna come base per una società libera e liberata.
Gli abitanti di Afrin, però, quelle case in cui avevano dato vita a questo esperimento le hanno perse. Forse per sempre.
E c’è la paura concreta che il piano di Erdoğan prosegua verso l’est della Siria per liberarsi definitivamente dei “terroristi curdi”. Il prossimo obiettivo, infatti, potrebbe essere proprio Manbij, dove sono stanziate alcune truppe degli Stati Uniti. La situazione, dal punto di vista politico, non è però molto chiara: «Ci sono stati vari incontri fra l’ex segretario di stato americano Tillerson e il suo omologo turco in queste ultime settimane. La Turchia ha detto che ne è nato un accordo per spartirsi Manbij, gli USA hanno smentito ma non hanno palesato cosa si siano detti».
Alla politica dall’alto va poi aggiunto un fattore, ovvero la situazione interna a Manbij che, spiega Davide Grasso, è diversa da quella che c’era ad Afrin: «C’è anche una varietà politica all’interno di Manbij e benché il fronte rivoluzionario sia quello che ha più consenso, la Turchia cercherà di strumentalizzare quell’altra parte, più sensibile alle sirene del regime di Damasco o dei jihadisti».
La resistenza ad Afrin e per Afrin: dalla Siria all’Italia
Allo stesso tempo, però, la resistenza YPG e YPJ continua. Si tratta di una nuova fase della lotta, che ora è la guerriglia, che «continuerà finché ogni centimetro di terra non sarà liberato e il popolo di Afrin potrà tornare alle sue case», come dichiarato dall’Amministrazione Autonoma Democratica del Cantone di Afrin all’alba dell’ingresso delle truppe turche e jihadiste nella città. Nell’ultima settimana «sono 77 i morti fra jihadisti o soldati dell’esercito turco», ci aggiorna Davide.
E se la resistenza in Rojava la fanno i combattenti che proseguono la lotta clandestinamente e i civili che non vogliono abbandonare le proprie case e idee, in Italia la mobilitazione è relegata ad una piccola fetta di persone che si informa in maniera indipendente su ciò che sta avvenendo. Sono gli attivisti dei centri sociali, di Rete Kurdistan o di piccole associazioni, ma anche persone che spontaneamente si avvicinano alla causa curda. Perché «fermare questa invasione è diventata una responsabilità storica», come dichiarato dalla comunità curda e dagli attivisti in più occasioni.
Attivisti che rimangono comunque pochi, anche perché nell’informazione occidentale «c’è una gerarchia dell’importanza delle vite umane che impedisce totalmente alla gente di capire ciò che avviene nel mondo». Gerarchia che dipende dal posizionamento politico del proprio paese: «La Turchia è parte della NATO, è alleata del governo italiano e c’è tutta una serie di relazioni economiche fra i due paesi. L’informazione che abbiamo oggi segue questo conformismo clientelare ed essere obiettivi, per la stampa italiana, significa fondamentalmente essere asserviti al potere costituito».
E allora… Che fare?
«Bisogna informarsi in maniera indipendente attraverso siti quali ANF News o Theregion.org, che danno un’informazione più di qualità. Poi si può aiutare materialmente donando alla Mezzaluna rossa curda». E poi, ci tiene a precisare Davide, «partecipare alle mobilitazioni e manifestazioni che ci sono per sostenere questa rivoluzione». Perché, anche se in pochi, continuare è non solo importante: è «un dovere».
Elisabetta Elia