L’onda nera delle destre ultranazionaliste continua ad avanzare nel cuore dell’Europa e la Serbia, anche se in modo contenuto, conferma questo andamento. Dopo la vittoria dell’estrema destra al primo turno delle elezioni presidenziali austriache, il 25 aprile è arrivata la sentenza dei cittadini serbi, chiamati alle urne anticipatamente per votare alle politiche. A trionfare con percentuali piuttosto nette è l’attuale governo conservatore-europeista, formato dal Partito del progresso Serbo (Sns) di Aleksandar Vucic. Per molti giornali internazionali queste votazioni rappresentavano una sorta di referendum sulle politiche dell’attuale classe dirigente, orientate verso l’austerity e l’accesso all’Unione Europea. Esame passato a pieni voti a quanto pare, raggiungendo un’ampia maggioranza con circa il 48%.
Tuttavia c’è un altro risultato significativo a caratterizzare le elezioni serbe: il balzo in avanti dell’estrema destra filorussa e ultranazionalista che, ottenendo attorno all’8%, torna in parlamento con 22 seggi e si delinea come terza forza del paese, dopo i socialisti.
Nonostante questo traguardo, il leader del partito Vojislav Šešelj si è mostrato insoddisfatto dei risultati «Sono deluso, ci aspettavamo di più. Ma continueremo la nostra lotta, ora anche in parlamento». Eppure, quello di Šešelj può essere considerato complessivamente un successo, ritornando nella scena parlamentare dopo quattrordici anni di esilio politico a causa della pesante accusa di complicità in crimini contro l’umanità ai danni del popolo croato e musulmano negli anni del conflitto in Jugoslavia. Dopo essere stato scarcerato nel 2014 per permettergli le cure al cancro, lo scorso marzo, è stato assolto da tutti i capi di imputazione dal Tribunale dell’Aja, la corte penale che si occupa di crimini internazionali.
Si tratta di una sentenza a sorpresa, come l’ha definita il capo della procura Serge Brammertz. Una sentenza che ha lasciato insoddisfatti non solo le vittime dirette di quei tragici avvenimenti, ma anche il primo ministro croato Tihomir Oreskovic, che considera il verdetto «vergognoso, una sconfitta per il Tribunale dell’Aja e per la procura».
All’epoca della guerra in Croazia, iniziata nel 1991 e che provocò la morte di circa 130 mila persone tra civili e soldati, Šešelj era membro del parlamento serbo, responsabile di inviare i combattenti al fronte. Il suo forte nazionalismo era il punto di riferimento di molti volontari, che vedevano nella guerra il tentativo di realizzare il progetto di una Grande Serbia, epurata dalle altre etnie. Šešelj, infatti, era anche il Vojvoda (comandante) del movimento dei cetnici, un gruppo di matrice nazionalista e ortodossa che formò parte dell’esercito serbo. La cupa bandiera che li rappresentava, un teschio e due ossa incrociate su sfondo nero, era in linea con il loro atteggiamento intransigente e senza scrupoli, tanto che il leader serbo e i suoi uomini erano considerati da Zagabria come i nemici più aggressivi e crudeli.
Un giornalista che lo intervistò durante il conflitto, ha riportato in un recente articolo alcune affermazioni che fece Šešelj in quell’occasione: «Non vogliamo nessun altro sul nostro territorio e combatteremo per i nostri veri confini. I croati se ne devono andare o moriranno» e ancora «non siamo contro la Jugoslavia, non vogliamo vivere nello stesso paese dei croati».
Il leader tenne numerosi discorsi pubblici in quel periodo, fatti della stessa retorica etnocentrica e violenta e che, combinati alla sua abilità oratoria e al suo carisma, spiegano i motivi che hanno spinto il Tribunale penale internazionale ad accusarlo nel 2003 di «discorsi e dichiarazioni che hanno contribuito alla decisione di commettere crimini contro l’umanità» e di aver organizzato le milizie paramilitari ultranazionaliste che operarono in Croazia.
A differenza dell’allora presidente della Repubblica Serba di Bosnia, Radovan Karadžić, condannato in via definitiva a 40 anni di prigione per crimini di guerra, la corte non è riuscita a provare la responsabilità diretta di Šešelj nelle atrocità compiute alla popolazione civile, slegando quindi la propaganda razzista e ultranazionalista del politico, dall’effettivo genocidio compiuto nei territori croati.
Dopo la sua assoluzione era cresciuta l’aspettativa del partito radicale serbo per le elezioni del 24 aprile, certo di prendere almeno una parte dei voti orientati a destra, proprio grazie al ritorno dello storico fondatore e più quotato rappresentante. Secondo l’Osservatorio balcani e caucaso, infatti, la sentenza ha fornito «a Šešelj un alone di vincitore contro la potente istituzione internazionale, che un gran numero di serbi vede come decisamente antiserba. Sicuramente l’elettore serbo orientato a destra e nazionalista, frustrato dalla serie di sconfitte attraverso cui è passata la Serbia negli ultimi venti anni, vede in tutto ciò il segno che le cose pian piano stanno cambiando».
Dai dati delle elezioni, però, sembra che alla fine questo non sia stato sufficiente per guadagnarsi la fiducia di gran parte dell’elettorato conservatore, che ha preferito la stabilità politica ed economica del paese, trovando in Vucic un porto sicuro.
Resta il fatto che l’ingresso del partito radicale in parlamento cambia le carte in tavola, perché il governo dovrà confrontarsi con idee fortemente ostili all’europeismo e favorevoli a un avvicinamento alla Russia. Gli ultranazionalisti di Šešelj potranno contare sull’appoggio dell’altra ala di estrema destra, Dss-Dver, entrati con il 5,1%. Se andrà come previsto e si costituirà un fronte comune, il blocco filorusso e nazionalpatriottico arriverebbe ad avere più seggi dei socialisti di Ivica Dacic.
Dunque, il nuovo panorama politico di Belgrado è tutto da vedere, a livello nazionale, ma anche nel più ampio contesto europeo e soprattutto nei rapporti con l’Italia, primo alleato della Serbia nei mercati e nelle lotte alla criminalità.
Rosa Uliassi