Nelle ultime settimane, la gravità delle proteste in Cile ha portato diversi osservatori internazionali a interrogarsi sulle cause di un fenomeno tragicamente inedito persino in un Paese, come quello andino, che negli ultimi decenni pure è stato esposto alle degenerazioni autoritarie del potere rese tristemente celebri dalla dittatura di Augusto Pinochet.
In effetti, non è facile ripercorrere le fasi di una crisi per molti versi inaspettata, in un Paese ritenuto, negli ultimi anni, un modello virtuoso in America latina in senso economico e sociale, peraltro guidato fino a poco tempo fa da un governo socialdemocratico (quello della presidente Bachelet) apprezzato anche in Europa.
Per provare a capire meglio quello che sta succedendo in Cile, poniamo che un certo Paese, in un subcontinente del pianeta tradizionalmente in difficoltà, riesca a veder crescere il suo prodotto interno lordo di almeno 2,5 punti percentuali l’anno, nonostante la sempre minacciosa crisi economica internazionale.
Consideriamo, poi, che il suo reddito pro capite si sia mantenuto uno dei più alti della stessa regione, a livello di quelli di alcuni membri dell’Unione Europea come Croazia e Romania, e che sia legato da trattati di libero scambio con buona parte delle economie mondiali. Si tratterebbe senz’altro di un quadro in astratto valutabile come altamente positivo, in cui sarebbe ben difficile, per un osservatore esterno, rintracciare sintomi di una pericolosa instabilità sociopolitica.
Invece, quello che solo ora emerge dalle valutazioni internazionali delle violenze delle ultime settimane, con un bilancio finora di 19 morti e svariati feriti per lo più a causa della repressione poliziesca, è che le proteste in Cile potrebbero derivare proprio dagli effetti distorti della crescita degli ultimi anni; o, per meglio dire, dal modo in cui è stata gestita la ricaduta, in termini economici e sociali, della crescita degli ultimi anni.
In effetti, quando si parla di sviluppo e crescita economica bisognerebbe stare attenti al vero significato delle fredde cifre che si è abituati a considerare. Una bella analisi de El Pais racconta proprio di come non sempre il concetto di “numero” e quello di “valore” coincidano e che le proteste in Cile possono essere sintomatiche, in effetti, di quanto oggi siano proprio e sempre più spesso divaricati “numeri” e “valori“.
Non è detto, infatti, che una crescita del PIL al 2,5% sia significativa di una di per sé soddisfacente distribuzione della ricchezza all’interno della comunità. Nel caso del Cile, è proprio il problema della diseguaglianza nella ripartizione delle risorse ad avere causato il violento terremoto delle ultime settimane.
La maggior parte della ricchezza generata nel Paese finisce nelle tasche di pochi, lasciando indietro la maggioranza della popolazione: questa rimane vulnerabile a causa della mancanza di soddisfacenti politiche sociali (in termini di insufficienza dell’assistenzialismo, della scarsa tutela del lavoro, dell’inadeguatezza del sistema pensionistico). Così, si capisce come anche un apparentemente contenuto aumento del costo del biglietto del trasporto pubblico possa liberare una massiccia carica di insoddisfazione e frustrazione.
L’ondata di proteste in Cile racconta sostanzialmente due cose: innanzitutto, non è utile né sufficiente inseguire un modello di sviluppo esclusivamente basato su aspetti quantitativi, se contemporaneamente manca l’attenzione all’aspetto qualitativo, in termini di redistribuzione delle risorse e cura dei settori disagiati della popolazione (ormai non solo più confinati alle classi più basse, ma identificati, non solo in Cile ma in tutta l’America latina, con un settore medio sempre più impoverito e con prospettive sempre più scarne di avanzamento sociale e di mantenimento delle posizioni eventualmente conquistate).
Ciò risulta a maggior ragione verificato nel momento in cui si osserva che, con una crisi economica internazionale sempre stagnante, il miraggio della crescita “numerica”, diventato il punto di riferimento dell’azione politica, ha implicato un cieco sbandieramento dei risultati quantitativi della crescita economica; inoltre, ne ha reso ancor più demagogico l’utilizzo da parte di certi governanti soprattutto di destra, come nel caso cileno.
Il fatto che il presidente Sebastián Piñera abbia inizialmente condannato le violente proteste (certo, considerate fuori luogo anche dalla maggioranza dei cileni) e mandato la polizia a caricare la folla, per poi fare marcia indietro, chiedendo “scusa” per non aver “capito” le rivendicazioni della piazza e i suoi veri motori, è altamente significativo della lontananza tra la classe dirigente e il popolo cileno.
Il conseguimento dei risultati di crescita, infatti, doveva probabilmente far ritenere a Piñera di essere politicamente “al sicuro”. Dalla sua immaginaria “comfort zone“, il mandatario non ha saputo (consapevolmente o meno) considerare la giusta dimensione del problema della diseguaglianza, finendo per dichiarare di “non capire” le proteste: se il Paese cresce, deve aver pensato, perché andare in piazza? Per pretendere quali miglioramenti di un sistema già “numericamente” autosufficiente?
Questo atteggiamento del presidente, intempestivamente e goffamente corretto in corsa con ben scarsi effetti, è sintomatico della divaricazione tra il dato numerico della crescita, che fino a ora ha fatto comodo agli establishment (di destra, ma anche, purtroppo di sinistra: è impossibile non considerare che la crisi della disuguaglianza cilena non parta da lontano e quindi anche dal governo Bachelet), e il significato autentico e sostanziale della crescita stessa, che ha avvantaggiato pochi e penalizzato molti.
C’è poi un altro aspetto della crisi che mette in evidenza la debolezza della democrazia latinoamericana e, in questo caso, cilena. La repressione delle proteste è stata attuata servendosi di alcuni precisi strumenti legali, cosiddetti di “Stato di Eccezione Costituzionale” e, in particolare, dello “Stato di Emergenza” interna.
Quando Piñera ha dichiarato, nei primi giorni della crisi, che il Cile era “in guerra”, non stava semplicemente utilizzando una figura retorica, ma annunciava di fatto l’inizio di una precisa pratica estrema del potere, quella dello stabilimento di uno stato di eccezione di matrice militarista che è stato in pratica lo strumento della repressione violenta e dell’imposizione del coprifuoco, di un’atmosfera da legge marziale non sperimentata nemmeno nei giorni convulsi del passaggio dal regime di Pinochet a quello democratico.
Il fatto che un presidente si serva di facoltà straordinarie (sulla legittimità del cui uso si sta cominciando a discutere in modo acceso) per reprimere delle proteste che dapprima dichiara infondate e poi, in un secondo momento, riconosce come legittime, scusandosi per il proprio comportamento repressivo, testimonia una volta di più la fragilità della democrazia cilena, stretta tra i freddi numeri dell’economia politica e la pericolosa flessibilità dell’uso di attribuzioni eccezionali che, in fin dei conti, si sono rivelate ulteriormente lesive dei diritti della stragrande maggioranza dei cittadini.
Ludovico Maremonti