In una Unione Europea strangolata e impaurita dalla crisi economica, aumenta il numero delle espulsioni dei migranti comunitari finanziariamente non indipendenti. L’Europa, nata intorno all’idea di costruzione di un mercato interno unico, è lontana dal completare il processo di integrazione sul piano politico e sociale. Il rischio è quello che si configuri, di fatto, una cittadinanza europea differenziata, che taglia fuori giovani precari e migranti economici.
Per meglio comprendere la nascita e l’evoluzione dell’istituto della cittadinanza europea (e il fenomeno connesso delle espulsioni dei migranti comunitari economicamente non autosufficienti), con tutti i diritti che storicamente lo precedono o che, a cascata, ne discendono, bisogna però fare un passo indietro. Nel Titolo III del Trattato di Roma del 1957 si sanciva la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali. Nonostante la parola “persone” faccia pensare ad un diritto generalizzato a muoversi nello spazio comunitario, in realtà ci si riferiva esclusivamente alla categoria dei soggetti lavoratori, sia dipendenti che indipendenti. Successivamente, anche grazie al costante pungolo in chiave progressista della Corte di Giustizia Europea, la libertà di circolazione veniva prima estesa anche ai familiari dei lavoratori dipendenti (regolamento 1612/68) e poi ai familiari dei lavoratori non salariati (direttiva 34 del 1975).
Per arrivare ad immaginare un’embrionale istituto della cittadinanza europea bisogna però attendere il Trattato di Maastricht (TUE) del 1992, in cui la Comunità Economica Europea (CEE), nel tentativo di stimolare un processo di integrazione politica tra gli Stati, diviene Comunità Europea (CE). Viene finalmente istituita la cittadinanza europea, ma appare sin da subito chiaro che questa sia funzionale alla costruzione di un efficiente mercato comunitario. Questa tappa ha però il merito di stimolare, in maniera del tutto involontaria, un dibattito tra le forze progressiste europee, che cominciano ad interrogarsi sulla necessità di costruire uno spazio europeo politico slegato dalle sole motivazioni di carattere economico.
La cittadinanza europea diventa un diritto compiuto solo con il Trattato di Lisbona del 2007 (TFUE). Con esso la libertà di circolazione e soggiorno assume un valore ed una portata autonomi e si trasforma in un vero e proprio diritto della persona in quanto tale, non senza eccezioni e condizioni che causano il fenomeno delle espulsioni dei migranti comunitari. La direttiva 38/2004/CE, che regola organicamente il diritto di soggiorno nello spazio europeo, prevede infatti che si debba garantire il possesso di sufficienti risorse economiche quando ci si stabilisce in uno Stato membro diverso dal proprio per un periodo compreso tra i tre mesi e i cinque anni.
Il fenomeno delle espulsioni dei migranti comunitari è proprio legato alla fattispecie di diritto di soggiorno sopra descritta. Nel 2013, proclamato “Anno europeo dei cittadini” dal Parlamento di Bruxelles, il solo Belgio ha espulso circa 2700 migranti comunitari e i governi di Germania, Austria, Gran Bretagna e Olanda hanno proposto, con formale richiesta al Parlamento europeo, la modifica delle norme in materia di libera circolazione e di accesso al welfare in riferimento ai cittadini bulgari e rumeni.
In concomitanza con la crisi economica, i Paesi del Nord Europa hanno cominciato a serrare i ranghi e a chiedere misure sempre più restrittive nei confronti dei migranti europei, temendo il diffondersi del fenomeno di turismo del welfare. La propaganda dei partiti nazionalisti, oltre a prendere di mira i migranti extracomunitari, ha cominciato ad attaccare in maniera continua i migranti comunitari dei cosiddetti PIGS, acronimo dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). Il risultato è che si sta mettendo in discussione quel lento processo di integrazione europea che ha visto nella Brexit la dimostrazione tangibile di quanto detto.
Gli Stati più ricchi d’Europa sembrano aver dichiarato guerra alla cittadinanza europea ed alla libertà di circolazione e soggiorno che ne consegue.
In un periodo storico nel quale, soprattutto per i giovani, la mobilità europea sembra essere l’unico fragilissimo argine alla marginalità sociale, si va costruendo un diritto di cittadinanza differenziato per ricchi e poveri. Nonostante la Corte di Giustizia Europea continui a richiamare gli Stati al rispetto del principio di solidarietà, le espulsioni dei cittadini comunitari aumentano e il loro accesso al welfare viene reso sempre più difficoltoso. Tutto questo viaggia parallelamente ad una precarizzazione del mondo del lavoro che impoverisce le giovani generazioni e non consente di garantire, in maniera continuativa, il possesso di requisiti economici minimi per poter restare in un Paese diverso dal proprio senza gravare sul sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante.
La cittadinanza europea viene privata di tutti i principi universalistici di cui sembrava dotata, arrivando al paradosso neoliberista di consentire alle merci e ai capitali di circolare indisturbati nell’Unione Europea mentre si procede alle espulsioni dei migranti comunitari che non riescono a ricollocarsi nel mercato del lavoro in tempi ritenuti ragionevoli.
Gli scenari politici europei non lasciano presagire nulla di buono, ma il destino della cittadinanza europea è ancora tutto da scrivere. Se non si vuole arrivare all’esclusione di milioni di precari dal diritto di stabilimento in tutto lo spazio comunitario, bisogna non cadere nel tranello di chi vorrebbe le alternative ridotte a due: l’Europa attuale dell’austerità o la sua dissoluzione, come invocato dai populismi. In campo c’è almeno un’altra idea di continente ancora tutta da costruire: l’Europa dei diritti, della solidarietà e del welfare comune.
Mario Sica