Parto da una sola, semplice frase rilasciata da Maurizio Landini alle telecamere: “Questo Paese esiste perché c’è la gente che lavora”.

La stessa che quest’oggi, mentre il corteo degli operai AST-ThyssenKrupp manifestava presso l’ambasciata tedesca di Roma, è stata caricata dalla polizia provocando cinque feriti: tre lavoratori e due sindacalisti.

Che la tensione sociale in Italia fosse prossima al punto di non ritorno era cosa nota ad ogni osservatore munito di un minimo di buon senso. Il procedere unilaterale del Governo Renzi in merito a Jobs Act e Legge di Stabilità non è piaciuto a nessuno, al di fuori degli schemi istituzionali; né tantomeno il fare provocatorio del premier, che si definisce disponibile ad ascoltare ma non a trattare, avrebbe potuto sortire altro effetto.

Ci aveva provato Susanna Camusso, a lanciare un avvertimento, definendo l’atmosfera a Palazzo Chigi “surreale”, confortata dal bagno di folla in piazza San Giovanni il 25 ottobre, la stessa che aveva segnato il solco e le distanze dalla Leopolda degli imprenditori e dei finanzieri. Ma quelle parole erano state ridimensionate con lo stesso aggettivo da Renzi, indaffarato a salvaguardare le apparenze mentre tesseva ricami ben più orditi nei maestosi palazzi fiorentini.

La distanza non è più materiale, è bensì morale, culturale, mediatica. È la cronistoria di un rapporto mai idilliaco con le parti sociali, di un nuovo corso improntato in realtà su dichiarazioni di facciata che palesano tutte le sofferenze politiche di questo Governo, trincerato dietro l’eclatante 40% ottenuto alle Europee in una Linea Maginot che separa gli annunci e i proclami dalla quotidianità del dramma.

La distanza è quell’abisso impercettibile di un passo di carica tra i poliziotti e i manifestanti di oggi, pochi centimetri in cui piombano e si condensano le lotte e i fallimenti di questi ultimi quarant’anni, la riproposizione di una “guerra fra deboli” ad eliminazione diretta, con il Governo spettatore e interprete d’eccezione di un dualismo storico e secolare; in quella parte del Paese oltraggiata nella dignità e nell’umanità, in quel Sud destinato a diventare un deserto, arato con il sale dalle stesse logiche opportunistiche e territorialistiche che le imprese hanno perpetrato per decenni nel silenzio meschino e benevolo degli affaristi di turno.

La distanza è nelle parole e nella loro forma fatua, nel gusto per l’offesa e l’accusa, se anche il segretario nazionale del più grande sindacato in Italia diviene improvvisamente una donna “eletta con tessere false” e che “riempie le piazze con pullman pagati”. Qui l’evidenza diviene a tal punto lampante da ferire con un fragore di luce chiunque vi assista, a suo modo incredulo o sbigottito. Perché tra lo snobismo di Pina Picierno e la rabbia a tratti volgare di Maurizio Landini c’è tutta la distanza tra il Paese reale, che combatte nel fango e paga le tasse in nome e per conto di tutti, e quello visionario che s’intrattiene con le citazioni di Fabio Volo e valuta le sedi legali più convenienti.

Landini

Tentare di nasconderlo o di minimizzarlo – e qui mi rivolgo alla mia parte, ai miei colleghi – sarebbe commettere una gravissima omissione etica e deontologica. Per gli ultimi vent’anni, e non è un luogo comune, ci si è accaniti con solerte ferocia contro metodologie demagogiche e populistiche, quando non incostituzionali, salvo poi riabilitarle agli occhi dell’opinione pubblica come un atto eroico e necessario a debellare ogni male all’arrivo di un paladino con la camicia azzurra e l’accento toscano.

La vergogna, anzi le vergogne consumatesi oggi, tra cui potremmo aggiungere il primo sì del Senato al nuovo ddl sulla diffamazione, sono il culmine e l’emblema di un cambiamento sbandierato su twitter e rinfacciato nelle sedi ministeriali, ma hanno quantomeno il pregio di consegnarci un’immagine limpida e veritiera di ciò che si vuole l’Italia diventi: l’immagine del sangue dei manifestanti, dell’ira inerme dei lavoratori, della vigliaccheria istituzionale celata dai soliti obblighi europei. Un’Italia sempre più distante da se stessa e dalle sue radici operaiste e antifasciste.

Diviene allora sacrosanto pretendere non solo una doverosa condanna e le scuse per quanto accaduto, ma risposte chiare e precise sulle reali intenzioni di questo Governo. Le meritano i lavoratori aggrediti oggi per difendere un loro diritto, le merita quel milione di persone che sabato era in piazza a Roma per delegittimare nel modo più democratico che esista le inconcludenti politiche portate avanti fino ad ora in tema di lavoro e di rilancio economico, le merita quel milione e più di persone che ha perso il lavoro negli ultimi cinque anni e non può accettare morali di comportamento da chi vive l’unico dilemma del non sapere dove esportare i propri capitali e delocalizzare i propri stabilimenti.

Emanuele Tanzilli

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