“Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile che sembra trovarsi tra ciò che si sente e che si può.”
Così scriveva Vincent Van Gogh in una delle sue interminabili lettere indirizzate al fratello Theo, che costituiscono la lancinante cronistoria della sua follia e della sua arte.
L’approccio al mondo della pittura avviene alla tarda età di 27 anni, ma il pittore olandese darà vita a delle opere sublimi durante gli ultimi 10 anni in cui visse.
Dai dipinti del celeberrimo artista trasudano tutta l’angosciante solitudine, l’efferata malinconia, la spietata inquietudine che lo pervadevano costantemente. Il tormento seguiva i suoi passi come un’ombra che si àncora ad un corpo e decide di tenerlo per sempre avvinto a sé. La tristezza, la contemplazione estatica e logorante dei dolori che solcavano incessantemente la sua esistenza erano un ritornello drammatico di una struggente canzone che egli dipingeva causticamente sulle sue tele. La follia, condizione intrinseca della sua personalità combattuta, che tentava a tutti i costi di celare, affiorava impudicamente e nelle sue opere e nei suoi comportamenti che tradivano l’apparente quiete con cui mascherava i turbini che usurpavano perennemente la sua anima afflitta. Scriveva, infatti:
“Soffrire senza lamentarsi è l’unica lezione da imparare in questa vita.”
Episodio cardine che rivoluzionò la vita di Vincent Van Gogh fu il suo incontro con Paul Gaugain. Nell’attesa che il pittore francese giungesse nel suo appartamento ad Arles, egli realizzò uno dei dipinti più famosi della storia dell’arte: “la camera di Vincent ad Arles”. L’originario intento dell’artista era quello di voler effigiare il disegno di una stanza che trasmettesse la tanto agognata serenità, quiete, tranquillità, adoperando anche toni che riproducessero una “semplicità alla Seurat”. Tuttavia, l’opera smentisce clamorosamente l’intenzione del pittore olandese, rivelando il travaglio inquietante, la tribolazione lacerante che assediavano la sua mente e che trovano espressione nei contorni neri degli oggetti, i quali lentamente sembrano scivolare verso sinistra, quasi come se volessero crollare e distruggersi.
La relazione con Gaugain fu percorsa da assordanti colpi di scena e liti furibonde. Noto è il litigio che portò Vincent Van Gogh a tagliarsi l’orecchio sinistro e a regalarlo ad una prostituta. La vicenda è anche oggetto del quadro “Autoritratto con orecchio bendato”, che egli spedì a Gaugain stesso.
Nel 1889, il pittore fu internato nella clinica di Saint-Rémy in Provenza, sotto sua stessa esplicita richiesta. Il delirio della follia emerse spudoratamente, senza vergogna, ma, al contempo, preda delle sue allucinazioni e dei suoi tormenti, l’artista realizzò circa 30 dipinti.
“Nella mia febbre cerebrale o follia, non so come chiamarla, i miei pensieri hanno navigato molti mari.”
Proprio in questo periodo, il depredante squilibrio da cui era afflitto si riversò in uno dei quadri più celebri di tutti i tempi: “Notte stellata”. Egli afferma al proposito:
“A volte penso che la notte sia più viva e più ricca di colori del giorno.”
Apparentemente si scorge una notte serena; il cipresso simboleggia il desiderio di placida quiete, ma anche di tensione orgiastica verso l’infinito. All’orizzonte incombe la minaccia delle colline che con la loro oscurità sembrano avanzare e voler rabbuiare l’opulenta magnificenza del paesaggio circostante. Il cielo stesso è vorticoso, colmo di turbini che paiono abbracciare le stelle, a dimostrazione della profonda inquietudine dell’artista.
Rimesso dalla clinica di Saint-Rémy, Vincent Van Gogh si reca a Auvers-sur-Oise, in un villaggio, dove trascorre l’ultimo anno della sua vita, sempre in preda alla delirante follia. Egli scrive al fratello:
“Per agire nel mondo, occorre morire a se stessi. L’uomo non sta sulla terra solo per essere felice, neppure per essere semplicemente onesto. Vi si trova per realizzare grandi cose per la società, per raggiungere la nobiltà d’animo e andare oltre la volgarità in cui si trascina l’esistenza di quasi tutti gli individui”.
Al 1890 risale la genesi di “Campo di grano con volo di corvi”, il dipinto che il pittore compì prima del suicidio. Proprio dalla suddetta opera traspare l’affanno vertiginoso, l’irrequietezza, il malessere, l’angoscia annichilente che nel quadro si traducevano nel cielo cosparso da toni oscuri, nel vento che con rabbia soffia sul campo, agitando il grano, nel volo degli uccelli, anch’essi neri, come l’anima dell’artista.
Il 27 luglio 1890, Vincent Van Gogh mette fine alla sua vita d’angosce, sparandosi un colpo di rivoltella al petto. Morirà, tuttavia, due giorni dopo, confidando al fratello Theo che “la sua tristezza non avrebbe mai avuto fine”.
Clara Letizia Riccio