Continua il pugno duro di Erdoğan verso gli oppositori. Forte dei nuovi poteri esecutivi ottenuti grazie alla vittoria del sì al referendum dello scorso 16 aprile, il leader turco ha ripreso la feroce caccia alle streghe contro i presunti affiliati alla “rete Gülen”, accusati del fallito golpe di luglio 2016.
Nel corso di una maxi operazione in 82 province della Turchia, sono stati arrestati 1009 ‘imam’ ― figure di coordinamento ― sospettati di appartenere ad una struttura nascosta dentro la polizia turca. Altre 2200 persone risultano ancora ricercate, mentre 9000 poliziotti sono stati sospesi dal loro incarico. Numeri pesanti, annunciati dal ministro degli Interni Süleyman Soylu, che ha parlato del coinvolgimento di 8500 agenti nella retata contro i presunti “terroristi”, già segnalati in un elenco redatto dalle forze dell’ordine. Solo nella città di Istanbul si sono verificate 3500 sospensioni, 1250 ad Ankara. Poco prima delle incursioni, il premier Erdoğan aveva dichiarato l’intenzione «di ripulire i membri del FETO (il movimento gulenista) all’interno delle forze armate, della magistratura e della polizia».
Da quando, nella notte tra il 20 e il 21 luglio, il presidente turco ha proclamato lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale, le retate contro i gulenisti hanno coinvolto tutti gli ambiti della società e colpito decine di migliaia di persone, considerate «affiliate o connesse ad organizzazioni o strutture terroristiche o ad organizzazioni e gruppi che, secondo il Consiglio di sicurezza nazionale, si impegnano in attività contro la Sicurezza nazionale dello Stato»: poliziotti, soldati, magistrati, avvocati, professori, giornalisti, attivisti per i diritti umani.
Grazie allo stato d’eccezione, l’esecutivo, che in questo caso si riduce nelle mani del leader turco, dispone di poteri discrezionali al di fuori dei limiti normalmente legittimi e può in qualsiasi momento ordinare isolamenti, detenzioni, chiusure di organizzazioni e istituti, sequestri di proprietà private, coprifuochi.
Secondo il Turkey Purge, un sito giornalistico che monitora la Turchia post-golpe, dei 150 mila licenziamenti avvenuti in questi dieci mesi, 4317 riguardano magistrati, giudici e avvocati, 7317 professori universitari, 2500 giornalisti, oltre 100 mila dipendenti pubblici. Cifre impressionanti e in costante crescita.
L’ultima relazione del Parliamentary Assembly of the Council of Europe (PACE), redatta lo scorso 5 aprile, mostra la gravità della situazione nel Paese, dove le espulsioni, gli arresti preventivi e le sospensioni sono all’ordine del giorno. 100 mila persone sono in attesa di processo e altre 44 mila sono detenute senza prove concrete. All’interno delle carceri, gli incontri tra detenuti e avvocati sono strettamente limitati e le loro riunioni attentamente monitorate, compromettendo inevitabilmente una difesa efficace. Non sono autorizzati contatti con l’esterno, fatta eccezione dei parenti più stretti, con i quali possono comunicare una volta a settimana, attraverso una finestra di vetro o via telefono.
Lo stesso Gabriele del Grande, il giornalista italiano arrestato al confine con la Siria e liberato dopo 15 giorni, ha parlato della sua detenzione come «una situazione a tutti gli effetti di sospensione del diritto», sottolineando che dietro le sbarre della Turchia restano tuttora altri 174 giornalisti.
E infatti desta particolare preoccupazione la situazione in cui versano i media e l’informazione turchi che, a causa delle continue censure e minacce, attraversano una crisi senza precedenti: dopo il golpe i giornalisti detenuti sono triplicati, mentre 177 organi di stampa “non allineati” sono stati costretti a chiudere. Le accuse ai giornalisti sono molteplici, ma tutte legate alla sicurezza nazionale e al terrorismo: propaganda antigovernativa, divulgazione di notizie false, spionaggio, sostegno a organizzazioni curde o vicine al nemico giurato del sultano: Fethullah Gülen.
È stata proprio la resa dei conti con Gülen al centro della campagna referendaria per il sì promossa dall’AKP, il partito di Erdoğan. Una campagna sbilanciata, fortemente faziosa e di parte, che ha occupato il novanta percento degli spazi mediatici, facendo leva sulla necessità di un leader forte e sulla paura del terrorismo: «Chi vota no, è nemico dello stato […] Se la riforma costituzionale non passasse coloro che hanno interesse a danneggiare gli interessi nazionali, continuerebbero ad avere la possibilità di intromettersi nella vita politica turca e destabilizzare il paese».
Un Erdoğan “plenipotenziato” e gli ultimi episodi di repressione hanno scatenato nuovi allarmi in Europa. Il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel ha accolto con preoccupazione la notizia degli arresti di massa, sottolineando che «è giusto che venga fatta piena chiarezza sul tentato golpe dell’anno scorso, ma bisogna rispettare lo Stato di diritto e i principi della proporzionalità». Il neopresidente dell’Europarlamento Antonio Tajani ha invece ribadito che, nonostante le attenzioni verso la situazione turca, «L’Ue non vuole in alcun modo chiudere la porta al popolo turco, che resta un popolo amico con cui cerchiamo il dialogo. L’Europa non è un continente islamofobo». Più duro il Consiglio Europeo, che ha chiesto al Paese di ripristinare immediatamente i diritti dei cittadini turchi, insieme alle libertà di espressione e di stampa.
Ma Erdoğan sembra tutt’altro che disposto al dialogo. In una delle ultime interviste ha puntato il dito contro l’UE, accusandola di «chiudere le sue porte alla Turchia» a causa dell’islamofobia dilagante che coinvolge tutto il Vecchio Continente. Intanto, tra le proteste per l’ambigua vittoria della riforma costituzionale, il leader si prepara ad altre due tappe referendarie: quella sulla permanenza della Turchia tra le candidate ad entrare in Unione Europea e quella più preoccupante sulla reintroduzione della pena di morte, questione scottante anche per l’equilibrio dei rapporti in politica estera.
Rosa Uliassi