Il 14 giugno 2017 l’Istituto italiano per gli Studi di Politica Internazionale ha pubblicato una ricerca dal titolo Jihadista della porta accanto, in collaborazione con la BBC, il cui obiettivo è indagare sugli attentati terroristici avvenuti in Europa tra il giugno 2014 e il giugno 2017.
Nel periodo di tre anni preso in esame, che va dalla proclamazione del Califfato in Medio Oriente (il gruppo esisteva già col nome Stato Islamico in Iraq e Siria, ISIS, ma è solo dal 2014 che la sua presenza sul territorio è stata in qualche modo ufficializzata e che ha cambiato il nome in Stato Islamico, IS) fino ai più recenti attacchi di Manchester del 22 maggio 2017, sono stati perpetrati 65 atti violenti classificati come atti terroristici di matrice jihadista ad opera di 51 attentatori.
Lo studio ha visto la collaborazione di tre studiosi di fama internazionale nel campo del controterrorismo, di cui due italiani: Lorenzo Vildino (direttore del “Program on Extremism” della George Washington University e responsabile del programma “Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale” dell’ISPI), Francesco Marone (Associate Fellow dell’ISPI per il programma “Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale”) e Eva Entenmann (Program Manager presso l’International Centre for Counter-Terrorism [ICCT] dell’Aja).
Nonostante la maggior parte degli attentati terroristici degli ultimi anni si siano concentrati in altre aree del mondo, la ricerca prende in esame solo gli attacchi avvenuti in Europa e Nord America, rilevando che il numero dei Paesi interessati è relativamente basso (8) e che il Paese più colpito è la Francia (17 attacchi), seguita dagli Stati Uniti (16 attacchi) e dalla Germania (6).
Nel totale degli attentati hanno perso la vita 395 persone e 1549 sono state ferite, delle quali 239 sono solamente le vittime francesi e 76 quelle statunitensi. Nonostante la media di vittime per episodio sia di 7,7 (alcuni attacchi sono risultati totalmente privi o con un numero di vittime veramente limitato), alcuni attacchi sono stati più letali di altri. L’attacco più letale in assoluto è stato quello di Parigi nel novembre 2015 (130 morti di cui 90 solo al teatro Bataclan), seguiti da quello di Nizza del luglio 2016 (86 morti) e Bruxelles (32 morti). In Nord America l’attacco con il maggior numero di vittime è stato quello di Orlando, giugno 2016, con 49 morti.
È interessante notare che solo il 18% degli attentatori è stato in Siria a combattere come foreign fighter, tuttavia tendenzialmente questi individui hanno preso parte agli attacchi più letali. Del resto, lo studio rimarca che bisogna evitare facili semplificazioni: gli attentati di Nizza e di Orlando sono stati opera di terroristi “principianti” eppure non meno letali.
Un altro fattore da prendere in considerazione sono i legami con i gruppi terroristici: a differenza di quanto si pensa generalmente, solo l’8% degli attentati (in particolare quelli di Parigi e di Bruxelles, attribuiti ad una vera e propria cellula dormiente dell’IS, sul modello di al-Qaida) è stato effettivamente coordinato e diretto dall’estero. Del restante 92%, i due terzi (66%) sono stati compiuti da individui privi di connessione con i vertici dello Stato Islamico ma che ne hanno abbracciato il messaggio influenzati anche dai cosiddetti virtual planners (persone che agiscono sul web dando supporto teorico e operativo agli aspiranti attentatori). Infine un ultimo 26% è costituito da quegli attentatori per i quali non sono stati riscontrati contatti diretti con cellule jihadiste di qualsiasi tipo, spesso definiti “lupi solitari“. Sono individui spesso nati e cresciuti in Occidente che si sono radicalizzati su internet o in centri locali e che vivono l’ideologia jihadista come un fattore di identificazione, magari coesistente ad altre ideologie e a problemi personali o mentali.
Eppure, ci mette in guardia Jason Burke di The Guardian, l’etichetta di “lone wolf” è spesso fuorviante quando si parla di terrorismo jihadista. Il termine, nato nell’ambito teorico dei suprematisti bianchi americani, è una spiegazione “comoda”, secondo Burke, che permette di «spezzare il legame tra un atto di violenza e l’ideologia che c’è dietro. Implica che la responsabilità dell’estremismo violento di un individuo è solo dell’individuo stesso».
«La verità, però, è molto più allarmante. Il terrorismo non è un attività solitaria ma sociale. Le persone cominciano a interessarsi a certe idee, ideologie e attività, anche se terribili, perché interessano ad altre persone».
La teoria che, per quanto i fattori individuali, socio-economici e psicologici, siano rilevanti, la vera forza dell’estremismo risieda nel network di propaganda globale è condivisa dagli autori de il Jihadista della porta accanto.
Dopo aver analizzato l’impennata dell’attivismo jihadista e i profili degli attentatori, nel quarto capitolo dello studio vengono analizzati i cosiddetti “hub di radicalizzazione”, centri locali con i quali più della metà degli attentatori ha avuto rapporti. Con il termine hub si intende fare riferimento a gruppi, più o meno strutturati, dotati o meno di un leader, presenti soprattutto nei Paesi nord e mitteleuropei, all’interno dei quali dagli anni 2000 in poi si è mossa la propaganda salafita in Occidente. Queste organizzazioni non sono necessariamente collegate allo Stato Islamico, tuttavia ne condividono la visione conservatrice e il richiamo alla Shari’a.
Le ricerche sulla radicalizzazione hanno messo in luce la debolezza dell’argomentazione di chi, semplicisticamente, associa l’estremismo a una difficile condizione socio-economica o addirittura alla questione dei migranti: non solo la maggior parte degli attentatori (73%) era residente del Paese nel quale ha sferrato l’attacco, contro il 5% di rifugiati o richiedenti asilo e il 6% di migranti irregolari (in totale 7 persone a fronte di 51 individui analizzati), ma svela che il rapporto tra individui radicalizzati e popolazione musulmana totale è più alto nei Paesi considerati “di successo” nell’integrazione (Svezia, Austria, Danimarca, Norvegia) rispetto a Paesi come la Spagna o l’Italia (dove tuttavia con le migrazioni, essendo più recenti che negli altri Paesi, non si è ancora giunti a una massiccia presenza di seconde e terze generazioni in età matura, le più interessate dalla radicalizzazione).
Dunque se l’estremismo non è il frutto diretto di povertà, marginalizzazione e un livello d’istruzione basso, allora bisogna prendere in considerazione il ruolo degli hub. A proposito di questi ultimi è interessante osservare come questi siano il luogo di interazione tra fattori strutturali (condizioni di vita, successi militari e propaganda del Califfato) e fattori personali (storia familiare, legami di amicizia, problemi psicologici o psichiatrici). Non tutti gli hub ruotano attorno ad un predicatore o a gruppi organizzati di propaganda come Sharia4 (una serie di associazioni salafite attive in Belgio, Germania, UK).
Il caso di Ravenna è lampante, e richiama un caso simile relativo a Lunel, un comune nel sud della Francia denominato “capitale del jihad“: a fronte di circa 122 individui che, dopo essersi radicalizzati in Italia, si sono recati in Siria come foreign fighters, quasi una ventina provenivano dalla città emiliana di poco più di 160.000 abitanti. La storia di questa città è infatti legata a un’altra, El Fahs (Tunisia), luogo di provenienza di molti attuali residenti di Ravenna che hanno iniziato a trasferirsi nel 2011 in seguito alle Primavere Arabe. Il caso ravennate è rilevante perché dimostra che l’estremismo non è prerogativa delle grandi città né delle zone marginalizzate (Ravenna è tra le città italiane con lo standard di vita più alto), ma che è strettamente legato a fattori sociali: i foreign fighters partiti da lì sono tutti tunisini, la maggior parte legati alla stessa cittadina di origine.
In conclusione, sebbene i dati siano ancora scarsi, questo tipo di ricerche è fondamentale, da un parte, per i servizi di intelligence, che ottengono così degli strumenti utili all’individuazione di strategie efficaci per sventare o prevenire eventuali attentati terroristici. D’altra parte sono uno strumento per combattere il panico sociale diffuso dai media internazionali facendo luce, in maniera scientifica, sulle cause dell’estremismo, abbattendo una serie di luoghi comuni che partiti e testate populiste di tutta Europa contribuiscono ad alimentare.
Claudia Tatangelo