Dal 2011 la saga de “L’amica geniale” ha conquistato milioni di lettori in tutto il mondo, consacrando Elena Ferrante ad autrice tra le più amate di tutti i tempi.
Elena Ferrante nasce a Napoli, probabilmente intorno al 1943, questo è quanto. La sua vita è un mistero, il suo volto avvolto da più di un ventennio nell’anonimato. Da quando nel 1992 fu pubblicato il suo primo romanzo “L’amore molesto” (divenuto un film per la regia di Mario Martone, in concorso al 48° Festival di Cannes) le ipotesi sono state svariate ed innumerevoli. Fu poi la volta de “I giorni dell’abbandono” nel 2002, tramutato in pellicola grazie a Roberto Faenza e in concorso alla 62ª Biennale di Venezia.
È stato con “La Frantumaglia” dell’anno successivo che l’autrice ha posto un filo diretto con i lettori, spiegando la sua scelta:«Se incontrassimo Lev Tolstoj a passeggio con Anna Karenina, tutta la nostra attenzione sarebbe per Anna.» I libri non hanno bisogno dei loro autori una volta realizzati, né di promozioni o incontri: parlano da sé. Sono organismi autosufficienti, il suo messaggio è stato chiaro «un’unica cosa potevo fare per i miei libri, e l’ho fatta: scriverli».
Tuttavia la curiosità si è riaccesa negli ultimi anni, proprio grazie alla tetralogia de “L’amica geniale”. È stato un successo senza pari, milioni di copie vendute in tutto il mondo, al punto che è in cantiere il progetto televisivo “Napolitan Novel” targato Hbo – Rai diretto da Saverio Costanzo, prodotto da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside e Domenico Procacci per Fandango, volto a portare sul piccolo schermo la saga.
Una vera e propria febbre che ha spopolato ovunque, soprattutto negli USA, dove grazie alla traduzione di Ann Goldstein e al lavoro della casa editrice Europa Editions, ha raccolto critiche positive. Basti pensare che Elena Ferrante è comparsa nella lista delle 100 persone più influenti del 2016 secondo la celebre rivista TIME per la categoria “Artists”.
La cosi detta “Saga geniale” è incentrata sulle due figure femminili di Lenù e Lila, amiche sin dall’infanzia, in una Napoli dell’immediato secondo dopoguerra che si affaccia al mondo con stenti e fatica. Da lì partono intrecci e storie che si allargano a tutto il rione, a Napoli, all’Italia.
Lenù e Lila finiscono per avere vite molto diverse dal momento in cui Lila non proseguirà gli studi, eppure continuano ad essere legate, quasi vincolate in un continuo amore-odio. Ognuna vede un punto di riferimento in questo rapporto, un’ancora e una spinta a fare meglio ma anche connotata da una certa rivalità: «quello che fai tu faccio io, non mi lascerai indietro.» Quando l’altra non c’è, l’amica opera sempre in sua funzione, tenendo in considerazione le idee, i modi, interrogandosi fino a scadere quasi nell’ossessione. Il racconto della storia di Lila e Lenù prosegue sino all’età adulta quando, entrambe anziane, si troveranno a tirare le somme, ciascuna a suo modo, di un’intera vita.
Persino raccontare è uno sforzo, poiché il racconto stesso per vivere ha bisogno che entrambe siano narrate e con loro, il loro rapporto, il rione, la famiglia, gli amici. Napoli è al centro di questi incontri-scontri, di una violenza e una rabbia che sono il pane quotidiano di una classe sottoproletaria che attribuisce allo studio valore ma è incapace di sfruttarlo. Lo studio è mobilità sociale, ma perennemente deriso, screditato. L’Italia del boom e la speranza del benessere collettivo, di fatto ancora oggi irrealizzato, sono un sogno; la fiducia nel progresso viene sostituita dalla disillusione e misurata dalle cifre del debito pubblico o della crisi economica.
«Napoli era la grande metropoli europea dove con maggiore chiarezza la fiducia nelle tecniche, nella scienza, nello sviluppo economico, nella bontà della natura, nella storia che porta necessariamente verso il meglio, nella democrazia si era rivelata con largo anticipo del tutto priva di fondamento. Essere nati in questa città – arrivai a scrivere una volta, pensando non a me ma al pessimismo di Lila – serve a una sola cosa: sapere da sempre, quasi per istinto, ciò che oggi tra mille distinguo cominciano a sostenere tutti: il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte.»
Napoli è una costante nei romanzi di Elena Ferrante, oltre ad essere l’unica certezza sul vissuto dell’autrice. Da Napoli si va via, in cerca di una possibilità, di un riscatto. Ieri come oggi. Nella finzione come nella realtà. Eppure dalla città, cosi come da certi legami, non si scappa, compaiono all’improvviso perché sono “dentro”. Nel mezzo della finzione a cui il compromesso con la realtà esterna ci costringe, negli attimi di non-controllo, riappaiono parole, insulti e atteggiamenti che sembravano archiviati. Il dialetto e l’italiano si mescolano continuamente, ma rimandano a mondi e concezioni spesso in antitesi.
Napoli è anche, d’altra parte, il riflesso di una società piena di contraddizioni, difficoltà, diritti che viaggiano a velocità diverse a seconda della provenienza geografica, dell’estrazione sociale, dal colore della pelle.
Nel coro di voci che acclamano la Ferrante, non sono mancate, naturalmente, critiche legate alla questione dell’anonimato, che secondo molti sarebbe all’origine del successo, soprattutto negli States. Parte della critica italiana considera lo stile della saga geniale povero, esile, scontato rispetto alla cura dei primi romanzi. Eppure la narrazione si affaccia su una pluralità di personaggi riuscendo a donare umanità a ciascuno di essi. Gli intrecci sono avvincenti, la scrittura è sferzante, a tratti quasi feroce.
La Ferrante riesce a fornire uno spaccato del vissuto, della quotidianità apparentemente banale di due ragazzine che diventano donne. Affronta le tematiche della famiglia e dei legami di sangue, del femminismo, delle lotte per le rivendicazioni sociali e politiche, dell’amore e della sessualità.
«Scrivere è un atto di superbia. Comunque io la metta, resta sempre il fatto che mi sono arrogata il diritto di imprigionare gli altri dentro ciò che a me pare di vedere, sentire, pensare, immaginare, sapere. Io mi sono assegnata, per motivi oscuri anche a me, il compito di raccontare ciò che so del mio tempo. Scrivo per testimoniare che sono vissuta e che ho cercato una misura per me e per gli altri, visto che gli altri non potevano o non sapevano o non volevano farlo. Bene, questo cos’è se non superbia? E cosa significa se non: voi non sapete vedermi e vedervi, ma io mi vedo e vi vedo? No, non c’è via d’uscita. L’unica possibilità è imparare a ridimensionare il proprio io, a rovesciarlo nell’opera e tirarsene via, a considerare la scrittura come ciò che si separa da noi non appena è compiuta: uno dei tanti effetti collaterali della vita activa».
Cosi l’autrice si riassume nell’intervista telematica concessa a Nicola Lagioia nel 2016.
Ilaria Cozzolino