Idomeni è un piccolo villaggio ai piedi del colle Kouri al confine tra la Grecia e la Repubblica di Macedonia. A causa della sua posizione, Idomeni è sempre stato un punto di passaggio obbligatorio per i rifugiati che cercano di raggiungere la Germania o gli altri paesi nord europei partendo dalla Siria, ma anche dall’Iraq, dall’Afghanistan o dal Pakistan.

Dopo la decisione della Serbia di chiudere la propria frontiera, nel 2015 la Repubblica di Macedonia ha deciso di seguirla, militarizzando anche la propria. Poco tempo dopo tali scelte, Idomeni si è forzosamente trasformata da territorio di transito a territorio di sosta obbligatoria, aumentando vertiginosamente la propria popolazione. Utilizzando come fonte Wikipedia sappiamo che la popolazione stabile di Idomeni corrispondeva in precedenza a 154 abitanti circa, ma adesso gli abitanti forzati di Idomeni sono oltre le 10 mila unità dando vita ad una situazione senza precedenti.

Il 24 marzo ho iniziato il mio viaggio dalla città di Catania e dopo due giorni sono giunto ad Idomeni con una carovana umanitaria chiamata #marchoverthefortress a cui hanno preso parte all’incirca 300 persone da tutta l’Italia per cercare di soccorrere i migranti di Idomeni su due fronti: quello politico, perché il nostro obiettivo era quello di mobilitare le coscienze dei cittadini europei per spingere i governi a rivedere le proprie politiche in materia di immigrazione, nel senso di una completa apertura delle frontiere al fine di permettere a queste persone di raggiungere le proprie destinazioni europee; sul fronte umanitario, cercando di portare loro oltre 5 van di aiuti tra medicine, scarpe, vestiti e magari anche un po’ di speranza per il futuro.

Il 26 marzo ho avuto il mio primo approccio con il campo di Idomeni: quando sono arrivato la mia prima sensazione è stata la vergogna, vergogna di essere un cittadino europeo, perché in ogni modo la si voglia raccontare, la crisi di Idomeni è frutto delle colpe delle istituzioni europee. Tantissime persone concentrate in questa enorme distesa, che cercano di lottare contro il freddo, la pioggia e le intemperie, usando delle normalissime tende (non tanto differenti da quelle che ci portiamo durante le nostre vacanze in campeggio) e la propria tenacia, e di sopravvivere, tentando di vivere una vita ordinaria in condizioni di vita del tutto straordinarie.

Alla fine della mia esperienza ad Idomeni ho immediatamente pensato che quel verso di una delle canzoni più famose, Disperato Erotico Stomp, del nostro Lucio Dalla – “Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale!” – si adatta perfettamente a tutte queste persone nel fango. Passeggiando e parlando con loro ho sempre percepito questa loro continua ricerca di una vita normale.

Chiunque incontrassi mi ripeteva «Dillo a tutti, noi non vogliamo cibo, vestiti o medicine, noi vogliamo soltanto raggiungere l’Europa per poter finalmente vivere le nostre vite».

Quello che loro chiedono è semplice e legittimo ed è tutto ciò che noi vorremmo: educazione per i propri figli (tenetelo a mente, si stima che circa il 40% dei rifugiati del campo di Idomeni consiste di minori che sanno bene cosa sia la guerra, ma che non sono mai entrati in una scuola dall’inizio del proprio viaggio), la possibilità di completare i propri studi (da quando il regime di Bashar Al Assad, a seguito dell’inizio della guerra civile nel 2011 ha introdotto la leva obbligatoria per i giovani sotto i 30 anni lasciandoli senza scelta alcuna: imbracciare un fucile o scappare), un lavoro ed una casa.

Perché i nostri governi non vogliono concedere loro queste opportunità? Sono forse spaventati dalla loro forza d’animo o dalla larghezza dei loro sorrisi in tempi così terribili? I partiti di estrema destra ed anche alcuni partiti più istituzionali ci dicono che in questi campi per rifugiati potrebbero nascondersi dei terroristi o comunque persone violente e pericolose, eppure tutto ciò che ho potuto vedere ad Idomeni erano ragazzi come noi (non tutte le persone adulte e men che meno anziane riescono ad arrivare lì, perché il viaggio verso l’Europa è lungo e faticoso) e tantissimi bambini che correvano tra il fango e la sporcizia ridendo, sorridendo e giocando come farebbe qualsiasi bambino europeo. Forse i politici traggono vantaggio da questo clima di terrore, perché è più facile racimolare qualche voto in più dalla paura anziché dalla verità, raccontando ai cittadini che queste persone starebbero mettendo a rischio i “valori europei”; ma se l’Europa è stata costruita sulla solidarietà ed il rispetto della dignità della persona, vi posso ben dire che ho visto molta più solidarietà e rispetto in codeste condizioni di terribile povertà che nelle regioni più civilizzate del mondo, per non parlare poi delle stanze del potere a Bruxelles.

Per farvi capire quello che sto cercando si spiegarvi, nel mio primo giorno ad Idomeni ho incontrato uno stupendo ragazzo siriano di 29 anni di nome Ahmed che, dopo una certa diffidenza legata alla mia videocamera (quando ci siamo conosciuti lui era spaventato poiché la sua famiglia era rimasta in Siria e temeva che una sua foto in rete avrebbe messo a rischio la loro sicurezza), siamo diventati amici e mi ha guidato nel campo consentendomi di parlare con i tanti che, scappando tra una bomba e l’altra, non hanno avuto il tempo di imparare l’inglese. Dopo appena un giorno nel campo, dove girando ho ricevuto amicizia ed accoglienza da tutte le persone che ho conosciuto, stavo per tornare con il gruppo al mio albergo di Edessa quando Ahmed mi chiama e mi dice “Antonio per favore unisciti a noi per la cena!“. Io ed alcuni volontari abbiamo, con un po’ di stupore, accolto il loro invito e ci siamo aggregati alla cena che la “famiglia” di Ahmed sul campo aveva preparato: lasciate che ve lo dica, sono rimasto a bocca aperta quando ho visto questo pasto degno di un re.

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Durante la mia permanenza sul campo con i profughi di Idomeni ho conosciuto tantissime persone, abbiamo condiviso sigarette, narghilè, tè e momenti di vita quotidiana e tutti assieme abbiamo passato dei momenti bellissimi, quasi dimenticando la terribile situazione in cui loro stessi si trovano quotidianamente. Abbiamo riso, abbiamo pianto ed abbiamo pure suonato assieme (mentre passeggiavo assieme ad Ahmed abbiamo incontrato un gruppo di curdi siriani che mi hanno invitato a sedermi assieme a loro per prendere parte ai loro canti tradizionali eseguiti con strumenti portati dalle loro terre e percussioni improvvisate rendendomi partecipe di questo grande momento di condivisione che non dimenticherò mai), cercando di restare pazienti e normali nella difficoltà.

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Non so se queste parole sapranno davvero rendere giustizia a queste persone le cui vite sono congelate ed il cui futuro è continuamente posticipato dall’egoismo e dalla cecità delle autorità europee, costringendo loro a vivere a tempo indeterminato ad Idomeni, uno strano luogo dove ordinario e straordinario convivono di continuo. Idomeni questo strano posto che, per quello che posso raccontarvi, è la folle via di mezzo tra un normalissimo campeggio per famiglie ed un accampamento militare.

Dopo il mio viaggio non posso che augurare il meglio alle persone di Idomeni che ho conosciuto, voi siete la mia Europa e siete e sarete sempre benvenuti!

[Il medesimo reportage da Idomeni, in inglese, è disponibile a questo link – The English version of this reportage from Idomeni can be found following this link]

Antonio Sciuto

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