Manca ormai una settimana all’ultimo atto delle tanto discusse elezioni negli Stati Uniti d’America. Il dibattito politico degli ultimi mesi, tra presidenziali e primarie, è stato tra i più accesi che si ricordino negli ultimi anni di storia politica nordamericana. Uno dei temi su cui il candidato repubblicano Donald Trump ha incentrato la sua campagna elettorale è quello della difesa dei confini, promettendo ai cittadini la costruzione di un muro lungo la frontiera con il Messico qualora dovesse essere eletto presidente.

La storia del confine che separa il Messico dagli Stati Uniti è estremamente interessante, tanto che registi, letterati, musicisti, giornalisti lo hanno, negli anni, reso un vero e proprio topos artistico. Film come The Border (1982) e Bordertown (2006), la serie tv The Bridge (2013) e il movimento letteral-muralista Acción Poética (diffuso in tutta l’America Latina), rappresentano solo alcuni dei fenomeni che hanno, ciascuno a proprio modo, raccontato come una semplice linea immaginaria sia finita col diventare una fonte di ispirazione tanto pregna di significato.

Se nell’immaginario culturale statunitense, l’attraversamento della frontiera meridionale ha sempre combaciato con l’elettrizzante ricerca di libertà e sregolatezza, dall’altro lato la trionfale retorica della decappottabile che sfreccia nel deserto lascia spazio alle “schiene bagnate” di chi, a nuoto, tenta di guadare il Rio Bravo e alle scarpe rotte di chi attraversa il deserto di Sonora puntando alla “terra delle opportunità”.

«Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti» è probabilmente l’espressione più celebre lasciata ai posteri dall’ex Presidente messicano Porfirio Díaz (morto nel 1915), che continua a godere di larga fortuna per quanto attuale.
La storia di una delle più controverse frontiere al mondo vive, però, le sue fasi più travagliate da tempi molti più recenti di quanto non si creda; basti considerare che se nel 1990 la United States Border Patrol era formata da circa 3.000 elementi, al 2010 si contavano oltre 20.000 agenti. Il dispiegamento massiccio di forze preposte alla sicurezza interna è senz’altro una misura figlia delle fobie post 11 settembre e del clima di terrore globale, ma, sul fronte meridionale, la recrudescenza dei fenomeni legati all’immigrazione clandestina risale alla metà degli anni ’90.

Il muro dei cui mattoni Donald Trump si è servito per costruire la sua pirotecnica campagna elettorale nell’ultimo anno esiste già su ampi tratti della frontiera. La promessa di una barriera fatta da The Donald riguarderebbe i restanti 2.000 chilometri scoperti dei 3.200 totali che corrono da Tijuana al Golfo del Messico.
La costruzione di una fortificazione frontaliera risale ad un anno spartiacque nella storia recente del Messico: il 1994. Nel primo giorno di quell’anno, veniva sancita l’entrata in vigore del NAFTA (North Atlantic Free Trade Agreement) siglato da Messico, Canada e Stati Uniti. In concomitanza con l’atto simbolico di consegna del destino messicano nelle mani dello sfruttamento a basso costo, un’altra frontiera, quella col Guatemala, vedeva l’affacciarsi dello zapatismo sul quadro politico nazionale. Se, quel giorno, le selve del Chiapas salutavano la nascita dell’autodeterminazione indigena come antidoto locale contro la globalizzazione, presso la frontiera settentrionale si inaugurava il flusso inflazionato di manodopera impiegata nelle maquiladoras e l’attraversamento illegale di migliaia di esseri umani che stavano assistendo allo smantellamento delle proprie economie locali.

Le prime barriere di separazione sorsero in prossimità di grandi centri a ridosso del confine: già nel settembre del 1993 l’Operazione Hold the Line risultò nella divisione fisica della metropoli transfrontaliera di El Paso–Juárez, misura adottata anche nel caso analogo di San Diego e Tijuana con l’Operazione Gatekeeper lanciata nell’ottobre 1994.
L’immediata conseguenza di queste azioni di difesa risultarono nella delocalizzazione degli illegal crossings verso zone scoperte, nello specifico ampie aree desertiche in cui si è costretti a camminare per oltre 50 chilometri sotto un sole cocente e senza viveri necessari a causa della necessità di trasportare carichi leggeri.

Oggi oltre mille chilometri di frontiera – un terzo del totale – sono segnati dalla presenza di imponenti tratti di lamiera metallica alta 6,4 metri e larga 1,8. Il confine ha subito un intervento massiccio volto alla militarizzazione sia del personale impiegato sia degli strumenti di difesa. Allo stato attuale la Border Patrol attinge per un 28,8% dagli esuberi dei veterani delle guerre che gli Stati Uniti hanno condotto in Medio Oriente negli ultimi 15 anni, ex-militari che hanno in dotazione radar sotterranei, sistemi di monitoraggio fatti di sensori di movimento e videosorveglianza, e nove droni Predator che costituiscono la più numerosa flotta impiegata nello spazio aereo domestico.

La militarizzazione del confine ha inaugurato un approccio molto più aspro alla questione del controllo della frontiera meridionale, come riportato dal professor Reece Jones (Università delle Hawaii) nel suo Violent Borders: Refugees and the Right to Move: negli ultimi cinque anni 33 persone sono state uccise dagli agenti della migra, mentre dagli anni ’90 ad oggi il numero di morti a ridosso del confine, uccisi dagli agenti, dai cartelli o dal deserto inospitale, è di circa 6.000. Inoltre, il numero di detenuti in strutture carcerarie frontaliere è salito da 85.000 nel 1995 a ben 440.000 nel 2013, mentre i rimpatri hanno – in totale e non solo nel caso messicano – toccato i 2 milioni e mezzo durante l’amministrazione Obama dal 2009 ad oggi.

Si tratta di cifre che tracciano un quadro tanto cinico da far pensare che, indipendentemente dalla costruzione dei restanti due terzi di quello che i messicani chiamano el muro de la vergüenza, la frontiera più romantica e crudele al mondo continuerà ad essere, secondo le parole dello scrittore Carlos Fuentes, «una cicatrice che sanguina ancora».

Cristiano Capuano

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