“Ogni volta, quando un mio film ha successo, mi chiedo: come ho fatto a fregarli ancora?”
Dalla televisione al teatro, passando per il cabaret fino al grandioso e fortunato approdo al mondo della settima arte. Questo l’altalenante percorso di una star del cinema poliedrica, dai mille volti e dalle mille sfaccettature: Woody Allen.
Attore, regista e sceneggiatore, al 1965 risale la sua prima comparsa in “Ciao Pussycat”, recitando accanto ad attori del calibro di Peter O’ Toole, Romy Schneider ecc.; film, di cui firma anche la sceneggiatura cinematografica.
“Il mio primo film era così brutto che in sette stati americani aveva sostituito la pena di morte.”
“Prendi i soldi e scappa” è la prima pellicola di cui oltre ad essere indiscusso protagonista, è anche regista. Seguiranno “Il dittatore dello stato libero di Bananas” e l’acclamato “Provaci ancora, Sam” che interpreterà al fianco della sua compagna Diane Keaton a cui sarà legato sentimentalmente, con cui formerà un felice sodalizio artistico e a cui dedicherà il film “Io e Annie”, il cui personaggio, Annie Hall, ha lo stesso vero cognome all’anagrafe della Keaton.
La prima fase cinematografica di Woody Allen si distingue per lo stile di slapstick comedy che, oltre a consacrare il tratto onirico del surreale, tipico delle commedie del regista, presenta una trama, il cui scopo è quello di fare da collante per un intreccio di gag, sketch e battute tra loro apparentemente scollegate.
Nel 1977, con l’uscita nelle sale cinematografiche di “Io e Annie”, Woody Allen inaugura un nuovo capitolo del suo “libro cinematografico”, in cui il comico non è più fine a se stesso, ma con acuta e velata ironia, con punte sottili di bruciante sarcasmo, sottintende l’autentica concezione drammatica della vita, secondo l’attore.
“Essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco.”
L’esistenza, dunque, è “divisa in due categorie: l’orribile e il miserrimo”. Ad essa non è sotteso nulla, è permeata da una triste insensatezza, dettata dall’acerrima consapevolezza dell’inesistenza di Dio e, di fronte ad essa, nonostante il costante e onnipresente pessimismo di fondo, le cose per cui val la pena vivere sono:
“il buon vecchio Groucho Marx , tanto per dirne una, e Joe DiMaggio e il secondo movimento della sinfonia Jupiter. Louis Armstrong, l’incisione Potato Head Blues, i film svedesi naturalmente, “L’educazione sentimentale” di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Wo, il viso di Tracy”.
Soltanto l’arte, come l’amore, ha il catartico e sublime potere di supplire all’inutilità frivola della vita, di colmarla, di farla meglio tollerare, nonostante tutto.
Numerosi i riferimenti alla psicanalisi nelle sue pellicole, considerata non solo come “inefficace rispetto alla soluzione dei veri drammi della vita”, ma anche come status symbol della borghesia annoiata e ipocrita.
A seguito di un periodo di crisi, Woody Allen torna nel 2005 sul grande schermo inaugurando un’altra delle fasi del suo cinema, al cui filone si ascrivono film del calibro di “Match point”, “Vicky Cristina Barcelona”, “Midnight in Paris”, in cui l’attenzione viene focalizzata soprattutto sul lato drammatico e tragico della vita, sull’elemento psicologico e su come quest’ultimo influenzi fantasmagoricamente l’esistenza di ogni essere umano. Il comico svanisce, per lasciar spazio alla riflessione, alla meditazione e alla pungente constatazione di ciò che negli altri suoi precedenti film aveva sempre ribadito.
Nelle pellicole del regista americano, inoltre, sono sempre presenti riferimenti al cinema europeo, come quello di Fellini o Ingmar Bergman, a proposito dei quali, afferma:
“Non ho mai creduto che la bellezza fosse anche la verità, mai. Ho sempre creduto che la gente non possa sopportare troppo la realtà. Io amo vivere nel mondo di Ingmar Bergman, di Federico Fellini. O in quello di Louis Armstrong. O in quello dei New York Knicks. Perché non si tratta di questo mondo.”
Non si tratta assolutamente di questo mondo, ma di quello fantastico, utopistico, chimerico delle luci della ribalta, troppo distante dall’amarissima realtà.
Clara Letizia Riccio