Inquinamento delle ICT: una vita breve ed insostenibile
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Ipotizzando di cambiare telefono in media ogni tre o quattro anni, tutti gli accessori che girano intorno ai nostri smartphone hanno una vita assai più breve. Cavi, cuffie, adattatori USB, powerbank, cover basic, cover aquaproof, eccetera. Con uno smartphone si ha il mondo in mano, ma per poterlo manipolare occorre un interno corredo che spesso non si sa come smaltire, né come sia stato prodotto. Il quadro si complica se riflettiamo sull’inquinamento delle ICT (Information and Communication Technologies) di cui ci circondiamo.

Inquinamento delle ICT “dalla culla alla tomba”

La percezione che abbiamo di queste tecnologie ci porta a pensare di essere davanti a dispositivi a bassissimo impatto ambientale, soprattutto dal punto di vista energetico, ma non è così. L’industria dietro alla produzione delle ICT è già stata inquadrata da diversi anni come una seria problematica sia dal punto di vista ambientale che etico. Un device elettronico cristallizza dentro di sé la conoscenza e la competenza di ingegneri e designer, ma anche lo sfruttamento dei Paesi da cui vengono estratti i materiali che li compongono. Godiamo appieno del genio dei primi, ma spesso non sappiamo nulla dei secondi. Già nel 2010, Il Post raccontava come l’estrazione e la vendita all’estero dei minerali necessari per la produzione dei componenti di questi dispositivi – come il tantalio, il tungsteno, lo stagno e l’oro – finanziassero l’operato illegale dei signori della guerra attivi nella Repubblica Democratica del Congo. Una filiera così costruita danneggia la popolazione locale sia dal punto di vista ambientale, inquinando le risorse naturali, che economico, depauperandola di risorse fondamentali senza migliorarne lo stile di vita, che dei diritti umani. Oltre che di “diamanti di sangue”, si parla dunque di “minerali insanguinati”.

Questi processi a monte non sono certo meno importanti di quelli a valle. Durante il loro ciclo di vita, le criticità intono a tablet, pc, tv e smartphone non fanno che accumularsi. Se ad un capo abbiamo i “minerali insanguinati”, dall’altro troviamo lo eWaste, termine informale che indica quei rifiuti provenienti da elettrodomestici e dispositivi elettronici di vario tipo (alcuni nocivi per salute e ambiente) che non si sa come smaltire in maniera efficace. Nel 2005 sono state stimate 9 milioni di tonnellate di rifiuti eWaste prodotte nella sola Unione Europea, mentre le stime fatte per il 2020 parlano di 12 milioni di tonnellate. Anche se il recupero mediante riciclo di questi componenti è reso possibile in alcuni Stati, i processi sono lunghi e costosi, oltre che oggetto di esportazioni illegali verso Paesi meno sviluppati che non dispongono dei mezzi necessari per il loro corretto smaltimento.

Tra questi due poli ci sono poi i costi energetici di alimentazione, necessari sia per utilizzare i singoli dispositivi che per mantenere i data centers, e la produzione di anidride carbonica durante le varie fasi di vita dei prodotti. Avere un’idea di questi numeri è molto complicato perché le ricerche scientifiche condotte negli ultimi anni mostrano dati totalmente discordanti.  Secondo la ricerca pubblicata nel 2018 nel Journal of Cleaner Production, entro il 2040 l’inquinamento delle ICT inciderà per il 14% sulle emissioni globali di CO2. Un altro studio pubblicato nello stesso anno  condotto dall’azienda svedese Ericsson pare invece smentire questi dati, osservando come la carbon footprint delle ICT sia rimasto sostanzialmente invariata tra il 2010 e il 2015 nonostante l’utilizzo di questi dispositivi sia esponenzialmente aumentato, rimanendo intorno all’1,4% delle emissioni globali di CO2.

Soluzioni sostenibili?

All’interno dell’Unione Europea sono già stati presi provvedimenti per ridurre l’inquinamento delle ICT garantendo controlli rispetto alle importazioni dei “minerali dei conflitti”, che ricadono sulle spalle degli importatori europei, che nella gestione dello smaltimento dei rifiuti elettronici ed elettrici (chiamati WEEE), evitando danni ambientali e favorendone il riciclo. Al contempo, rigettare questi dispositivi non sembra una via praticabile. Le Nazioni Unite stesse hanno riconosciuto le ICT come strumenti necessari per il raggiungimento entro il 2030 dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile perché in grado di connettere individui, promuovere azioni e diffondere campagne informative e di sensibilizzazione. Le «magnifiche sorti e progressive» dello sviluppo tecnologico hanno portato indiscutibili vantaggi, concentrandoli però solo a quei Paesi privilegiati che ne beneficiano senza pagarne i costi diretti in termini ambientali e umani: una asimmetria che non può più essere tollerata.

L’economia circolare risulta uno degli strumenti migliori in nostro possesso per ridurre l’inquinamento prodotto dalle ICT. Così come non si può guardare ad una sola fase della produzione, non si possono nemmeno considerare alcuni quadranti dell’atlante e dimenticare gli altri. Occorrono quindi visione di insieme, buone pratiche individuali e azioni di lotta alla corruzione e all’inquinamento che partano dall’alto per preservare i diritti di tutti, dalla DRC all’UE, e salvaguardare l’ambiente. Soprattutto, serve uno sguardo di prospettiva in previsione di una maggiore diffusione e pervasività delle ICT e dell’IoT (Internet of Things) nei prossimi anni.

Carlotta Merlo

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