La grande mobilitazione ancora in corso nelle maggiori piazze e aeroporti degli Stati Uniti, contro l’ordine esecutivo del nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump, che ha temporaneamente sospeso l’ingresso ai cittadini di sette paesi a maggioranza islamica (novanta giorni) e a tutti i rifugiati a prescindere dalla loro nazionalità (centoventi giorni), sembra aver risvegliato un conflitto sociale, politico e morale che nella società americana si era sopito da troppo tempo.
Il motivo che è stato dato dalla Casa Bianca per questo discusso e discutibile provvedimento, ossia quello della guerra al terrorismo, risulta più che mai falso.
Alcuni paesi inclusi nel controverso muslim ban sono effettivamente attraversati da guerre civili dai connotati religiosi, ma è apparsa subito plateale l’esclusione dalla lista di paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar e il Pakistan, che sono riconosciuti universalmente come i principali sponsor del terrorismo islamico internazionale (da Al Qaeda all’ISIS).
Non solo: se sei dei paesi banditi (Yemen, Siria, Libia, Iraq, Somalia, Sudan) dall’ordine esecutivo sono a maggioranza sunnita e caratterizzati per altro da una generale instabilità politica, l’inclusione dell’Iran sconfessa definitivamente le intenzioni dichiarate: nemico giurato dell’ISIS, lo stato persiano combatte al fianco degli stessi statunitensi contro lo Stato Islamico, sia direttamente che indirettamente attraverso gruppi sciiti in Iraq e in Libano.
Le motivazioni che hanno portato il presidente appena insediato a prendere una decisione così pasticciata sono innanzitutto mediatiche: dare il segnale ai suoi sostenitori che le promesse elettorali verranno mantenute, con un taglio decisionista che ha riscosso apprezzamenti anche da parte delle destre populiste del vecchio continente.
Dietro questi motivi più superficiali, che hanno determinato una certa frettolosità nell’emanare il muslim ban, una decisione che sembra contenere grossolani errori e difficoltà interpretative, viene ipotizzato un processo di ridefinizione degli interessi strategici in Medio Oriente: con Barack Obama, a costo di qualche stortura di naso da parte di Israele e Arabia Saudita, c’era stato un avvicinamento storico con l’Iran, proprio in chiave di lotta al terrorismo. Con questo provvedimento, anche da questo punto di vista, sembra invece esserci un pesante passo indietro.
I primi passi dell’amministrazione Trump sono un terremoto anche sul piano interno. Mentre in piazza scendono i movimenti dei diritti civili, l’attivismo liberal e le minoranze etnico-religiose, alcune delle più grandi multinazionali americane si espongono contro il muslim ban mentre altre, ree di non aver espresso la medesima sensibilità, vengono colpite dalla rabbia sui social dei sostenitori anti-Trump.
Nell’ordine si sono susseguite le prese di posizione della famosa catena di caffetteria, Starbucks, che ha affermato di voler assumere nei prossimi cinque anni ben diecimila rifugiati, e del colosso del web, Google, che ha stanziato un fondo di quattro milioni di dollari per gli immigrati e i rifugiati colpiti dalla misura restrittiva.
Passa in secondo piano la presa di posizione del numero uno di Goldman Sachs e noto finanziatore della campagna elettorale di Hillary Clinton, Lloyd Blankfein, che ha denunciato come il provvedimento adottato «crei confusione dentro il gruppo, specialmente per alcuni dipendenti e per le loro famiglie». Secondo Blankfein, citando i principi aziendali, «essere diversi non è un optional, ma è quello che dobbiamo essere».
Anche la Ford, da Detroit, ha criticato la misura intrapresa dalla nuova amministrazione mentre nessun commento è arrivato dalle altre cause automobilistiche. Critiche sono piovute anche da Facebook, Microsoft, Lyft, Apple. Airbnb ha offerto alloggi gratis per chi nel corso del fine settimana fosse rimasto colpito dall’ordine esecutivo.
Diverso destino è invece capitato a Uber: la nota azienda statunitense di car sharing è diventata oggetto di un singolare boicottaggio promosso via social dall’hastag #DeleteUber, che ha spinto numerosi utenti a cancellare l’app dal proprio smartphone. L’azienda avrebbe infatti approfittato dello sciopero indetto dai tassisti di New York fornendo passaggi a tariffe maggiorate dall’aeroporto JF Kennedy. Sebbene sia noto a chi utilizza quest’applicazione come le tariffe del servizio vengano in realtà liberamente decise dai singoli affiliati, la polemica si è placata solo dopo l’intervento via Facebook del co-fondatore e amministratore di Uber, Travis Kalanick, con il quale si è schierato contro il bando definito «sbagliato e ingiusto» e ha spiegato come la compagnia garantirà sostegno economico e legale a tutti i dipendenti Uber che dovessero risentire della nuova politica sull’immigrazione.
A pochi giorni dall’incontro con Donald Trump, la premier britannica Theresa May è costretta ad un parziale passo indietro e a dichiarare il proprio disaccordo rispetto all’approccio del provvedimento. Tale presa di posizione viene per altro in un momento difficile, teso intorno alla difforme interpretazione del bando data dal Foreign Office di Londra e poi dalle ambasciate statunitensi, intorno alla validità della regola o meno per i cittadini britannici con secondo passaporto di uno dei sette paesi islamici coinvolti.
La cancelliera tedesca Angela Merkel si è detta profondamente dispiaciuta per la decisione del Presidente Trump, e convinta che «la necessità della lotta contro il terrorismo non possa giustificare un generale sospetto verso persone di una specifica fede o nazionalità».
Anche il Presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha ribadito, tramite la portavoce Margaritis Schinas, la propria contrarietà al provvedimento: «questa è l’Unione Europea, e noi non discriminiamo sulla base della nazionalità, della razza o della religione, non solo per l’asilo ma per qualsiasi altra nostra politica».
Da Russia e Cina reazioni più tiepide: da Mosca si ribadisce la totale indifferenza verso la questione, mentre il ministro degli esteri cinese ha dichiarato in una nota come sia necessario prendere in considerazione le «ragionevoli preoccupazioni di importanti paesi».
Dalle Nazioni Unite arriva la preoccupazione del segretario generale Antonio Guterres, seguita dalla dura condanna di Zeid Ra’ad al Hussein, Alto Commissario del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, che ha definito il bando “illegale e meschino”.
Roberto Davide Saba