La senti nei lamenti del piccolo Zachi la sofferenza di questa gente nata nella parte sbagliata del mondo. Parvana e la sua famiglia vivono a Kabul nel periodo appena precedente la guerra mentre, insieme, affrontano tutto il corollario di problemi, afflizioni che si porta dietro un paese sull’orlo della guerra e della crisi sociale.
Un film d’animazione che racconta le difficoltà delle donne di cultura islamica
Sotto il burqa (The Breadwinner è il titolo originale) si configura già dalle premesse come un film d’animazione dal vizietto ideologico, etnocentrico, ma che si propone di raccontare senza fronzoli le difficoltà che le donne di fede e cultura islamica sono costrette a vivere in questo contesto degenerato.
Ci racconta degli obblighi che le stesse sono costrette ad adempiere, i sacrifici, le violenze, l’assenza di libertà e la deriva culturale e religiosa dell’islam che è diventata tutto ad un tratto violenta (questo ci fa capire la voce narrante in maniera colpevolmente approssimativa, spesso dal tono allegorico e retorico che ripercorre lo stile favolesco, volutamente dissonante).
Propaganda, dicevamo. Ce n’è tanta nel film prodotto da Angelina Jolie sebbene le protagoniste della storia sembrino fatalmente accettare il loro destino e si oppongano ad esso solo quando in gioco c’è la loro sopravvivenza.
Parvana difatti non è altro che la cugina mediorientale di Mulan, che come l’eroina cinese cercherà di salvare il padre, arrestato ingiustamente, e che per farlo si fingerà un uomo avendo così tutti i privilegi, gli oneri e gli onori che da questa condizione derivano.
Ma di disneyano questa storia non ha nulla, a parte il pretesto e gli occhi da cerbiatto della protagonista poco più di una bambina.
Sotto il Burqa è una Mulan senza lieto fine
La narrazione nello specifico si dispiega in due storyline, la prima quella dei protagonisti e la seconda allegorica. Un racconto spezzato tra sogno e realtà, costrizione e libertà, ma anche nella diegesi e nell’intradiegesi di alcuni elementi, tale che le sequenze sembrano isolate le une dalle altre, cadendo a volte nella ridondanza e non permettendo un agevole assorbimento della pellicola.
Ma questo film d’animazione, che è stato candidato agli ultimi Oscar e Golden Globe, ha l’obiettivo di inoltrare un messaggio al di là delle questioni tecniche. In questo senso ci riesce in pieno — sebbene in maniera faziosa — perché lo fa in maniera spietata senza mostrare in maniera pornografica la violenza, ma preferisce sottintenderla, attraverso rumori, urla, ematomi e spari, con un risultato forse ancora più agghiacciante per lo spettatore.
Kabul, così come tutto il mondo mediorientale di cui la città si fa immagine, ci viene presentato come fumoso, desertico e spoglio. Un mondo indesiderabile pieno di difficoltà animato da personaggi gretti, crudeli. Scorgiamo un unico filo di umanità solo in chi ha perso o sofferto. Ma sono appunto mosche bianche, come il caso della famiglia di Parvana e un Parvana stessa che si staglia nel suo mondo sabbioso con i colori accesi dei suoi vestiti e dei suoi occhi che la rendono più familiare ai nostri prodotti d’animazione rispetto ai barbuti personaggi di contorno – alieni ai nostri codici occidentali.
Sotto il Burqa è, quindi, la sublime e fatale dignità nell’affondare, l’orgoglio del risalire. La strenua e faticosa resilienza del sangue e della famiglia. La resistenza mai vana contro i precetti di una cultura che a volte può stare troppo stretta. Contro il destino infame.
Un pugno nello stomaco.
Enrico Ciccarelli