Il brainch della domenica – Le elezioni e quello squallido giochino tra Renzi, Berlusconi e Di Maio
Cari (e)lettori, vorrei potervi dire che il mese di febbraio non sarà monopolizzato dalle elezioni, ma purtroppo non è così. Il 4 marzo saremo chiamati al voto ed è giusto, anzi è doveroso restare nel cuore della discussione su quella che si preannuncia una delle tornate più scarne, tristi e avvilenti di sempre. Renzi, Berlusconi, Di Maio e gli altri: avete già scelto?
Ciò che appare piuttosto evidente, a un mese esatto dal fatidico giorno, è la delusione, lo scoramento che aleggia intorno a una competizione di livello infimo, contenuti a dir poco ridicoli e toni indecenti persino per la più sgangherata delle democrazie; perché, checché se ne possa pensare, è in un contesto democratico che ci troviamo ad agire ed ogni analisi, critica o prospettiva va necessariamente ponderata all’interno di questo schema.
In parole povere: nessuno si illuda. Il giorno dopo le elezioni l’Italia non si trasformerà in un regime dittatoriale né in una comune rivoluzionaria, ed anzi con ogni probabilità dovremo rassegnarci a sacrificare la rappresentatività sull’altare della governabilità, e ad ingoiare una nuova stagione di larghe intese (quanto trasversali, saranno poi i rapporti di forza scaturiti dalle urne a determinarlo).
Ordunque, se vi eccita la baraonda marasmica dei sondaggi, cerchiamo invece per un attimo di focalizzare la nostra attenzione su qualcosa di più sottile e imponderabile dei numeri: la psicologia della campagna elettorale. Vi sono appena venuti i brividi? Anche a me.
Elezioni 2018, parola d’ordine: “Abolire”
Cosa muove l’approccio al 4 marzo delle principali forze politiche in campo? Cosa accomuna Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Pietro Grasso, Luigi Di Maio e Matteo Salvini? Il desiderio di perdere le elezioni, più che di vincerle. Mi spiego meglio.
In un contesto già compromesso da difficoltà che non sembrano avere soluzione, come l’impossibilità di ottenere una maggioranza stabile, l’avanzare inarrestabile della massa di astensionisti, i margini di manovra risicati per un’azione di governo, la competizione elettorale sembra essere diventata un ameno e giocoso passatempo tra amici che bivaccano tra di loro in attesa di svoltare l’alba.
Niente slogan forti o immediatamente riconoscibili, niente propaganda martellante sui mezzi d’informazione: il percorso di avvicinamento alle elezioni vive di lunghi e monotoni silenzi, di quando in quando infiammati da frasi ad effetto gettate lì più per scrupolo di coscienza che per realistica strategia. Aboliamo il canone RAI, aboliamo le tasse universitarie, aboliamo la Legge Fornero. E nel frattempo, a rischiare più seriamente l’abolizione sono soltanto i congiuntivi.
Ma fa eccezione – e non potrebbe essere altrimenti – Silvio Berlusconi. Del resto, anche a 81 anni suonati non sarebbe lui senza l’eccesso, senza quell’istrionico tocco di eccentrica megalomania che lo ha reso Silvio Berlusconi. Flat Tax, pensioni minime e reddito garantito a 1.000 euro, galera per gli evasori fiscali e altre barzellette simili. Il Silvione nazionale, da vero one-man-show, si conferma l’unico uomo di politica (definirlo “politico” sarebbe un po’ eccessivo) e leader carismatico presente sulla scena.
Colpa del viagra? Di sicuro colpa di Matteo Renzi, la cui parabola politica da astro nascente a meteora dispersa è durata quasi meno della convinzione di Pippo Civati di poter contare qualcosa all’interno di Liberi e Uguali. Colpa di Luigi Di Maio, che continua ad avere lo stesso appeal mediatico di un cactus nel deserto del Nevada in un giorno di pioggia (ma meno acume politico). Colpa di Matteo Salvini, che a furia di cercare il consenso un po’ ovunque è entrato in tale confusione da andare a fare campagna elettorale in mezzo ai rom, salvo poi ricordarsi che non possono votare: in questo video di Repubblica possiamo assaporare il dramma umano, prima ancora che politico, consumato nel disagio e nella vergogna.
Di conseguenza, mentre l’offerta latita e i candidati sembrano più interessati a blindare le proprie posizioni nei collegi che a fornire il benché minimo spunto a queste elezioni, noi poveri e miserabili semplici esseri umani dobbiamo sopportare la più tetra delle disgrazie, la più tantalica delle torture, la più cupa delle sciagure: l’attivismo dei militanti sui social network.
Peggio Renzi, Berlusconi o Di Maio? Sicuramente D’Alema
Infatti in che modo può essere condotta una campagna elettorale del tutto priva di idee e di contenuti? Solo ed esclusivamente attraverso l’insulto. Ed è quello che sta accadendo.
Le nostre bacheche si sono trasformate nel Passo delle Termopili elettorale, in cui gli invasori persiani sono gli attivisti assetati di sangue (e di voti), invulnerabili al confronto grazie alle loro bolle autoreferenziali, e gli eroici 300 spartani sono coloro che provano ad intavolare un discorso coerente e costruttivo. No, bisogna soltanto dire che D’Alema fa schifo, chiaro? Vietato scrivere altro, pena la gogna.
Mai come in quest’occasione a dominare la scena virtuale sono gli insulti e le prese in giro (che hanno almeno il privilegio di strappare un sorriso). Si va dagli evergreen come il già citato D’Alema e il Berlusconi mafioso e puttaniere ai congiuntivi di Di Maio, dalla “famiglia tradizionale” di Giorgia Meloni al becero razzista xenofobo di Salvini. È un continuo darsi addosso che non arricchisce né sposta alcun consenso, come invece si vorrebbe far credere, ma alimenta la confusione e spaventa gli indecisi.
È quello che è: uno sfogatoio di livorose frustrazioni elettorali che cela e palesa allo stesso tempo il vuoto pneumatico di una stagione politica che si credeva conclusa con lo strappo del referendum costituzionale, e che invece è ancora lì davanti ai nostri occhi, viva nella putrescenza cadaverica del pressappochismo e dell’indecenza. Uno squallido giochino che gioverà soltanto a chi poserà le proprie natiche sugli scranni del Parlamento, e abbandonerà nel disgusto chi non riesce più a turarsi il naso.
Buona domenica, lettori cari.
Emanuele Tanzilli
@ematanzilli
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