«Quando ho scritto quest’opera ero spinto dalla necessità di raccontare una tragedia silenziosa, quella della povertà, un tema purtroppo estremamente attuale. Lo presentiamo in anteprima alla kermesse cinematografica dedicata alle location in un momento storico dove le difficoltà e le divisioni sociali sono diventate marcate e insostenibili dopo l’avvento della pandemia da Covid-19 e gli scontri per le uguaglianze negli Usa». Così commenta Giuseppe Alessio Nuzzo (noto per i corti Lettere a mia figlia, The Choice, meno per il suo unico lungo Le verità)la sua ultima opera Fame, un cortometraggio o film breve di 11 minuti presentato all’Ischia Film Festival 2020. Fame, prodotto Paradise Pictures con Rai Cinema, è disponibile sulla piattaforma multimediale RaiPlay, anche in formato audiodescrizione per ciechi e/o ipovedenti. Ambiziosa la prova di recitare senza dialoghi sottoposta ai due protagonisti interpretati da Massimiliano Rossi (eccellenti le sue interpretazioni nei film di De Angelis Indivisibili e Il vizio della speranza) e Ludovica Nasti (L’amica geniale). Il corto di Nuzzo si configura come un’esperienza muta ma loquace, un breve melodramma all’interno di una Napoli Teatro del mondo in cui tutto si interseca, tutto si confonde, in cui sembra impossibile sciogliere i nodi dell’immobilismo.
Abbiamo fame.. ma di cosa?
Napoli è la città delle contraddizioni. Napoli è la città della molteplicità. Napoli è la città del caos. Eppure direbbe Henri Bergson che il disordine è semplicemente l’ordine che non stavamo cercando. Cos’è la fame se non il desiderio di opporsi all’annichilimento, al subire passivamente le difficoltà che quell’immenso crocevia chiamato esistenza ci può porre in ostacolo? Napoli, con i suoi angusti e poveri incroci, è simbolo della condizione di precarietà che può presentarsi in molteplici maschere: quella sociale, politica o anche quella individuale e psicologica. Ma essa è anche città libera spaziosa aperta, che chiude i propri abitanti in un abbraccio inclusivo. Fame è un affresco esemplare della contraddizione napoletana, della sua forte identità che si fonde con la multiculturalità. Napoli è città-protagonista, «Città meravigliosa, multietnica, accogliente, superba, misteriosa ed imponente con il lungomare, il Castel dell’Ovo, i vicoli del centro antico, i caratteristici “bassi” […] che racchiude storie dimenticate ma indimenticabili» come suggerisce il regista. Pare che la condizione della città partenopea sia specchio o involucro nel suo costituirsi come macrocosmo di un’infinità di piccoli mondi che risentono della sua immanenza. E Fame ci propone un breve, ma intenso, microcosmo: un microcosmo napoletano.
La scelta
«Quante possibilità abbiamo nella nostra vita? E se avessi intrapreso l’altra strada, cosa sarebbe accaduto? Queste due domande le abbiamo poste a noi stessi almeno una volta nella vita. E il mio obiettivo è che lo spettatore si interroghi ancora una volta, cercando dentro di sé una risposta sincera». Lo spettatore nel guardare Fame, storia di un padre e una figlia, è chiamato a ricomporre tasselli frantumati di una narrazione atemporale caotica tra passato e presente, sulle note della colonna sonora composta da Adriano Aponte che presenta una realtà sospesa ed aggrovigliata. Perché la vita è un impasto infinito di scelte le cui conseguenze possono inginocchiarci. E forse non sono soltanto le conseguenze a intimorirci, ma è la prospettiva stessa dell’infinità e della possibilità a chiuderci in una kierkegaardiana angoscia. Eppure, come ci mostra l’opera, l’uomo deve decidere al meglio della sua possibilità per ricercare per sé e per gli altri la sincerità degli affetti laddove il macrocosmo della Storia non mostra oasi di salvezza.
Luca Longo