Cari lettori, anzi, car* compagn*, uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo. D’altronde, Marx era stato chiaro nel definirlo uno “spettro” e non c’è quindi da stupirsi se nessuno l’ha mai visto davvero.

Se del comunismo, probabilmente la più completa (ed utopistica) ideologia mai concepita, si fatica così tanto a parlare in termini concreti, probabilmente non è per la nostalgica vetustà di loghi con falce e martello, né per un’effettiva obsolescenza della teoria socio-economica, sempre attuale nell’epopea del capitalismo più sfacciato ed ostentato; esiste la possibilità che qualcosa si annidi in interstizi più occulti, negli spazi di riflessione ed azione che rappresentano l’eredità politica di quel Manifesto.

Siamo, del resto, a così breve distanza dall’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre che diede il via ad uno dei più riusciti esempi di sperimentazione del comunismo che la storia ricordi – uno dei pochi, se non l’unico caso di concretizzazione effettiva, sotto la guida di Lenin, che dei princìpi ispiratori di Marx fu un solerte e coerente esecutore.

Giusto quindi soffermarsi, a un secolo circa di distanza, sull’evoluzione e il desolante quadro di macerie residui di quello scenario, picconato ben prima della caduta del Muro. Se in Europa il fragile e confuso equilibrio geopolitico vive di sprazzi isolati, come la tenue resistenza della Grecia di Tsipras, il socialismo in salsa inglese di Corbyn e lo schema di alleanze di governo in Portogallo – tutto accuratamente osteggiato dalle istituzioni comunitarie – in Italia come al solito ci pregiamo di conservare il ruolo di avanguardia del disfattismo.

Del “partito di lotta e di governo” auspicato da Berlinguer è rimasta una polverizzazione ad ogni livello ed architettura. Ognuno si fa portatore di una sua personale concezione di sinistra e/o di comunismo, di una peculiare visione della realtà che differisce dalle altre per poche sfumature o colossali impalcature: abbastanza comunque da rendere impossibile ogni tentativo di pacificazione mentale, prima ancora che politica.

L’asserzione di base va riassunta pressappoco in questo modo: “uniti si vince, ma venite voi appresso a me”.

Così nascono e sono nati i cartelli elettorali consegnati ben presto agli archivi della storia a prender polvere, dalla Federazione della Sinistra alla Sinistra Arcobaleno, dall’Altra Europa con Tsipras alla Sinistra Italiana che ha aperto i battenti ma che, nel frattempo, sembra già lo spauracchio perfetto per conclamare un’aggregazione di frammentazioni piuttosto che una coesione di coerenze.

A latere, è bene non dimenticarlo, possiamo trovare l’universo pulviscolare di sigle, movimenti, collettivi e correnti di pensiero accomunate non tanto dal logo del comunismo, quanto dalla ineffabile convinzione di incarnare la purezza originaria della dottrina meglio di tutti quanti gli altri. Il comunismo, sotto questo aspetto, non è mai esistito, lasciando bensì adito di esistenza a marxisti, leninisti, maoisti, trotzkisti, stalinisti, anarco-comunisti, guevaristi, utopisti, hegeliani di sinistra e, venendo a noi, gramsciani, togliattiani, berlingueriani, e via dicendo.

Ciò premesso, e cioè che l’impostazione personalistica di questa visione è abbastanza paradossale per un’ideologia che fonda la sua essenza sul collettivismo, non sono in discussione le dottrine, quanto l’utilizzo distorto che se ne fa, a legittimazione di una superiorità morale che, oltre a sfociare in risultati risibili, preclude ogni tentativo di recuperare al comunismo la reale dimensione di appartenenza, quella delle masse, del popolo.

A sinistra è tutta una gara ad insultarsi e a delegittimarsi a vicenda. Ho letto di alcuni “compagni” bollare la nuova formazione politica con il nome di “Cosa Rosa”, con esplicito riferimento alle preferenze sessuali di Nichi Vendola e lungi da me giudicare l’impronta politica dell’ex governatore di Puglia ma, in quanto uomo di sinistra, non mi sognerei mai di irridere così sfacciatamente un’altra persona fondando il pregiudizio su uno dei diritti che rivendico per gli altri, ossia la libertà di autodeterminazione.

Se è a questo che si è ridotto il comunismo, a una lotta fra pover…acci in cui ognuno da solo innalza il vessillo della Verità, come spiegare diversamente fenomeni come il plebiscitarismo di Renzi o l’apoteotico movimentismo di Grillo? Fenomeni che, più che epifanie, si nutrono anche dei prodotti di scarto di una tale impostazione culturale.

Comunismo da tastieraVi è dunque, nel comunismo di oggi, un’apologetica esaltazione del “noi ristretto” che è, in definitiva, assimilabile ad un’esaltazione del sé di matrice assolutistica. E non lo scrivo per attirarmi gli anatemi di intellettuali e militanti (dei quali, comunque, non temo il giudizio), quanto per risvegliare una coscienza di identità che sia la precondizione ineludibile per il risveglio di una coscienza di classe.

Insomma, al comunismo non farebbe male scrollarsi di dosso la rigidità della dottrina e deporre gli alibi per evitare di costruire un’azione più omogenea ed incisiva. Accettare di condividere i meriti per ottenere risultati buoni insieme, piuttosto che risultati minimi da soli. Guardare con pragmatismo alle difficoltà quotidiane, piuttosto che tracciare sentieri ultrauranici verso l’utopia. Provare a sporcarsi un po’ le mani prima di copincollare citazioni dal Capitale su facebook o invocare il crollo del capitalismo attraverso uno smartphone da 500 euro, e cose così.

O vuoi vedere che, alla fine, se il comunismo non esiste è tutta colpa di Marx?

Emanuele Tanzilli

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