È difficile parlare di Stranger Things, ne parlano tutti. E quindi cosa potremmo dire di nuovo o magari uguale ma con parole diverse? Ah, che è una grande serie tv. Ma ve lo aspettavate. Potremmo, allora, iniziare dicendo che non è una serie che fa semplice intrattenimento, ma qualcosa di più. Tipo che è un’esperienza ludica e godereccia che permette sia di giocare quanto inorridire con mostri interdimensionali, attraverso gli occhi ingenui di Undici e degli altri protagonisti che con un po’ di audacia e incoscienza sprofondano negli abissi oscuri di Hawkins.
Ok, già un po’ più articolato per quanto oleografica come apertura, ma può andare.
Quindi cosa vogliamo dire con questo? Che Stranger Things non ci rende semplici spettatori ma ci immerge come copiloti negli abissi del Sottosopra insieme ai nostri amati personaggi. Fondamentalmente non abbiamo alcuna facoltà di intervenire, ma quando il panorama è così ricco e entusiasmante, che importa? Non possiamo che goderne.
Stranger Things quindi rappresenta il monolite di 2001: Odissea nello spazio per noi scimmie malate di serie tv, che si staglia prepotente e magnetico all’interno del panorama televisivo odierno, proclamandosi (e facendosi proclamare) come una delle migliori produzioni seriali degli ultimi anni. Non lo è tanto per la scrittura, per l’autorialità della produzione o per la brillantezza dei messaggi (anzi questi molto puerili e disneyani). Ma lo è perché è un prodotto autentico, che pullula passione per un’epoca retrò e che brilla di luce genuina, perché tratta con semplicità e naturalezza una trama appassionante, senza metafore o riflessioni astruse. È immediatamente fruibile e ci fa tornare un po’ tutti bambini. Ma non bambini ingenui da scuola materna, ma bambini di quell’età ad un passo dall’adolescenza in cui provavamo quell’adrenalinica curiosità verso l’ignoto, e lo spavento diventava la nostra più grande trasgressione nonché il nostro incosciente obiettivo. È un racconto narrato davanti al fuoco mentre siamo al campeggio con i nostri amici, spensierati e aperti alla vita, dove gioco e spavento confluiscono insieme, e tutto si risolve in una risata o in uno scherzo dell’amico stronzo.
Ci parla di amicizia, di amore, di coraggio e lo fa con onestà e una modestia tale, che anche noi più grandi possiamo tornar a credere in queste cose. E ne rimaniamo affascinati, con la nostalgia che ci stringe come un mantello pensando ai tempi che furono. Perché una volta finita la stagione, tutte queste cose non ci sembrano poi così romanzate e lontane, ma incredibilmente vicine. Siamo cresciuti e ammantati di cinismo misto a disillusione, pressati da scadenze e ritmi frenetici che rendono meno divertente ogni cosa. Ma il bambino che eravamo c’è, ed è ancora dentro di noi. E mai dovrà andarsene, e Stranger Things ce lo ricorda in ogni fotogramma, tra un Demogorgone e l’altro.
«Sì, ma deve tutto il suo successo al revival anni ’80». Per niente. il citazionismo ai goonies e all’horror adventure di quegli anni è sicuramente dilagante, ma la serie non è solo la sua ambientazione o le sue scelte stilistiche. Queste sì, gli conferiscono una sua connotazione identitaria ben definita, ma sarebbe riduttivo e un peccato mortale ridurlo a ciò. C’è la qualità degli attori, la sceneggiatura coinvolgente, la fotografia calda, ma soprattutto la mitologia sci-fi/horror altamente immaginativa costruita dai fratelli Duffer, appassionati e nostalgici di quel periodo a ritmo di Duran Duran, prima che autori della serie.
Tutto ciò vale soprattutto per la prima stagione di Stranger Things, e credeteci, per i nostalgici cronici è difficile tenere a freno le dita e non lasciarsi andare a facili esaltazioni.
Ciò detto, passiamo ad analizzare la seconda stagione:
Saremo concisi. La prima stagione di Stranger Things ha goduto dell’effetto sorpresa che ha reso ancora più fulgido il suo prodotto. Difatti è più facile scintillare al buio quando i riflettori non ti sono proiettati addosso. Il fil rouge della prima serie gravitava, quindi, attorno al mistery ed era scandita dalle rivelazioni disseminate per la trama già molto chiara agli autori, ma oscura al pubblico: la scomparsa di Will, l’esistenza e l’origine del Demogorgone, il laboratorio e l’identità di Undici (Eleven per chi lo guarda in originale).
Nella seconda stagione, contrariamente, tutti conoscono tutto e chi più chi meno,temeva l’evoluzione della storia di Undi e amici, perché tutti l’attendevano al varco, tutti erano pronti a dire «ah si carina, ma mai come la prima». Ma davvero tutti. Ed era anche plausibile come cosa, visto l’inaspettato successo.
Ora è arrivato il momento di tirare le somme. Non sappiamo dire se Stranger Things sia riuscita a superarsi o no. Ma la seconda stagione è la naturale (e riuscitissima) evoluzione della storia con una seconda parte entusiasmante e corposa, ricca di spunti di trama e soprattutto coerente con quanto seminato nella prima. Al netto delle storyline secondarie, abbastanza riempitive e che si spera abbiano maggiore dignità narrativa nella terza stagione (Billy contro Steve, la storia di Otto e Undici etc..).
E quindi ci sono nuovi mostri, i Democani, il Mostro Ombra che, ahinoi, quest’ultimo è rimasto ancora troppo nell’ombra. E poi, nuovi personaggi che sono funzionali alla crescita dei nostri protagonisti, pensiamo al nuovo antagonista umano, Billy, utile per la crescita virtuosa di Steve e per dare un retroterra biografico a Max, l’altra bambina new entry e nuova fiamma di Lucas. Oppure a Bob, genio incompreso che all’inizio appare un personaggio monodimensionale e di margine ma che in realtà è fondamentale per il dipanarsi della storia e forse il personaggio con cui, più di tutti, stabiliamo un vero rapporto empatico.
Cambiamenti anche dell’importanza dei personaggi nell’economia della serie: Mike, vero protagonista fra i bambini della scorsa, in questa stagione cede il passo a Lucas, Will e Dustin, anche in virtù della separazione per quasi tutta la serie dalla sua amata Undi, scelta che può contrariare o meno, ma funzionale alla crescita del romance fra i due. Per un re-incontro ad alta intensità solo alla fine, mai melenso, ma tenero e genuino.
Una stagione molto più audace sotto molto punti di vista, se si pensa al lieve aumento di scene forti (ma mai eccessive e sempre in linea con lo stile del telefillm) come il gattino Mews divorato dal piccolo Democane o alla morte di uno dei personaggi. Quest’ultima una scena straziante, anche lì proceduta da un disarmante momento di tenero contatto umano.
Per concludere, Stranger Things è attualmente uno dei titoli più forti sul panorama televisivo attuale. Non eccelle in nulla, se non nell’appassionate mitologia, ma è un centrifugato di sogni, paure, aspirazioni, di calore umano, raccontato e recitato con dedita passione e autentico coinvolgimento dai protagonisti. E noi non vediamo l’ora di tornare ad Hawkins.
Enrico Ciccarelli