Cari lettori, col referendum di oggi possiamo dire addio all’Italia così come l’abbiamo conosciuta: da domani nulla sarà più come prima, a cominciare da noi stessi.
Lo spartiacque dal retrogusto profetico, in pieno stile Maya, si consuma nelle urne a cui oltre 50 milioni di italiani sono invitati per compiere una scelta tanto banale quanto fatale: Sì oppure No.
Sì o No. Un refrain martellante che da mesi logora e pervade ogni aspetto delle nostre esistenze, fino a farci impazzire, ad alienarci dalla realtà, a rimettere in discussione la percezione di ogni gesto e ogni dettaglio. Lo metto lo zucchero nel caffè? Ah, dannato CNEL!
A dire il vero, questo referendum è stato preceduto dalla campagna più brutta di cui si abbia memoria. Appare ben lontana, ad esempio, la capillarità delle lotte per i beni comuni di cinque anni fa, quando si trattava di difendere l’acqua pubblica e scongiurare il ritorno al nucleare. Eppure, in gioco stavolta c’è addirittura la Costituzione: quale bene più prezioso e vicino al comune sentire?
Ma l’Italia è terra di santi, navigatori e analfabeti funzionali. E il dibattito referendario, ben lungi dall’incentrarsi sui contenuti, ha gravitato per la quasi totalità del tempo intorno alla figura politica di Matteo Renzi, alla sua permanenza in carica come Presidente del Consiglio e alle ipotesi di governi tecnici ed elezioni anticipate.
La scelta di personalizzare il voto, di scandire motti e slogan di una superficialità disarmante, ci riporta a un manicheismo vecchio di oltre un millennio e, quel che è ancora più grave, ci dimostra per l’ennesima volta incapaci di affrontare una discussione politica, sociale, economica ed istituzionale in maniera matura e costruttiva.
Di conseguenza, per quanto certa stampa abbia riconosciuto al referendum il merito di aver riavvicinato gli italiani al dibattito politico, la mia impressione netta è che li abbia invece aizzati gli uni contro gli altri, seminando un astio di cui non si avvertiva esigenza alcuna e polarizzando il conflitto su contrapposizioni più consone a curve di stadio che ad un iter riformativo.
Teatrini e farse, bufale e previsioni apocalittiche: ad ascoltare i comitati, qualunque sia l’esito, domani ci ritroveremo sommersi di un metro sott’acqua, invasi dalle cavallette, sepolti da una pioggia di fuoco e cactus, e senza più macchinette per fare il caffè. Non che l’idea di convertirci tutti alla camomilla appaia tanto malvagia, a questo punto.
Il terrorismo psicologico – da una parte e dall’altra – che ci è stato precipitato addosso, invasivo, sprezzante, a tratti umiliante, ovunque volgessimo lo sguardo, non può che rendermi lieto all’idea che sia tutto prossimo alla fine, a una risoluzione. Fallimenti di banche, ritorno alla dittatura, crollo dei mercati, licenziamenti di massa: ancora qualche giorno di strepiti social, servizi ai telegiornali, titoli a cinque colonne e potremo riposare nelle ceneri della nostra disfatta.
A uscirne con le ossa rotte, manco a dirlo, saranno i tanti volontari impegnati consapevolmente nell’offrire una visuale più ampia del tu-voti-come-pinco-pallino ai cittadini: vincerà in ogni caso il populismo, la disinformazione, la caciara made in Italy che lascia tutti sempre più arrabbiati e meno consapevoli. E da lunedì quelle stesse persone che si sono accapigliate per un monosillabo dovranno rappresentare il Paese agli occhi di un mondo che guarda a noi a volte con preoccupazione e a volte con derisione.
Meglio, allora, un decoroso silenzio di questo ridicolo baccano. Che dire? Benvenuti nella terra dei cachi: Italia sì? Italia no? Italia, boh.
Buona domenica dunque, lettori cari, e buon voto.
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli