I giovani d’oggi sono in gran parte atei o agnostici. E non deve sorprenderci, dato che siamo figli di un’epoca che ha visto eclissare progressivamente il sentire religioso, dove a decadere sono stati tutti quei simboli sui quali si basava la produzione di senso dei nostri antenati.
Non staremo qui a tediarvi, sciorinando gli elementi che hanno contribuito a questa condizione. Ciò che preme sottolineare è che oggi, più che mai, l’uomo sembra aver bisogno di un qualcosa che assomigli ad un Dio. Magari un Dio esautorato di quell’aura ecclesiastico-anacronistica e che sappia, al contempo, raccogliere le virtù desiderabili di una data cultura.
Ma perché questo bisogno “divino” in una società laica e scientista come la nostra? Semplice: per dare un senso alla vita, alla morte, per immaginare un’altrove felice con i propri cari. Cose a cui la scienza, nonostante gli sforzi, non ha dato (e forse non darà mai) risposta.
E non è un caso che nella cultura pop sia diventato consueto il tema di Dio. Non a caso, solo negli ultimi anni, sono state diverse le produzioni cinematografiche – di successo – che hanno vellicato il tema e declinato in varie forme: dal supereroe, alla divinità muta, passando per la figura antropica con aspirazioni divine.
Alla ricerca di Dio:
Partiamo da Silence, l’ultimo film di Martin Scorsese, che ha ben pensato di raccontare tali inquietudini con la maestria artistica e la sensibilità di chi si avvicina ad una maturità significativa.
Il film narra le vicende di due padri gesuiti portoghesi partiti per il Giappone per ritrovare il loro mentore. Durante il loro viaggio, verranno a conoscenza delle tremende persecuzioni che lo shogunato applicava ai danni dei cristiani.
Un film che palesa con una forza empatica travolgente tali dilemmi: dove può spingersi la fede in Dio? Fino a quanto l’uomo è disposto a sopportare il silenzio, l’intangibilità, di una divinità che sembra sorda come non mai alle nostre invocazioni? E queste domande sono mostrate, fotogramma dopo fotogramma, con una violenza tale da far vacillare anche gli atei più convinti.
Intangibilità. “Silenzio“. Sono queste le uniche tracce di Dio. Ed è proprio il silenzio il protagonista del film, quegli spazi di nulla in cui paradossalmente si manifesta tutta la potenza del divino e, frattanto, si palesa la nostra dipendenza verso egli. L’impotenza, verso un mondo scarno di significati e di risposte certe. Un “silenzio” che drammaticamente apre e chiude il film, lo stesso che accompagna le vessazioni psicologiche e spirituali dei due protagonisti nel corso della pellicola: Adam Driver e Andrew Garfield.
Il film, difatti, gioca perversamente sulla sofferenza del mortale, segnato – ieri come oggi – da un’atavica infantilizzazione: il bisogno di un Dio-padre amorevole, la necessità di una protezione da qualcosa di più grande e onnipotente in grado di fornire sollievo dalle terrene sofferenze. Un’illusione, che getta gli uomini nel baratro dell’irrazionalità, alimentando le reciproche idiosincrasie in nome di questo o quell’altro, ma in ogni caso “invisibile”, Dio.
Ciò che più traspare (oltre che una chiara connotazione ideologica pro-cattolicesimo) è la solitudine di un uomo, che attraverso un racconto, ha voluto confidare le sue apprensioni e i suoi dilemmi.
Solitudine, spaesamento, il tutto reificato nella figura di Kichijiro (altro personaggio della pellicola), allegoria fatta carne che spietatamente rivela l’inconciliabilità di una fede profonda, necessaria, con l’incomunicabilità di un Dio che non c’è e, forse, non c’è mai stato.
Dio è giusto o perfetto?
Ma lo stesso dilemma lo troviamo in quello che è forse l’archetipo del supereroe senza macchia, ovvero Superman. Nella pellicola Batman v Superman, infatti, ritorna il suddetto dilemma teologico: Superman ha le caratteristiche di un Dio? E se sì, è accettabile come tale? L’umanità sembra per tutto il film auspicare ad un Dio padre, ad un essere onnipotente che sopperisca alle paure e alle angosce della vita.
Un genere umano, anche qui, bisognoso di protezione da parte di qualcuno (o qualcosa) più giusto, più virtuoso, più potente, che spera sia Superman. Ma dall’altra, nella mente dei più, aleggia la paura che egli sia invece un Dio egoista, un Dio senza morale in grado di prevaricare tutto e tutti: la legge, le convenzioni, le persone. Parliamo di secoli e secoli di dibattito religioso in un film che tratta di botte fra supereroi..
L’uomo si fa Dio:
Chiudiamo, prendendo una produzione pop trasversale a quelle sopracitate, in quanto di matrice orientale e, soprattutto, appartenente ad un media diverso: il manga. Ma, tranquilli, non siamo fuori contesto, Death Note é già un anime e, a breve, sarà anche un film grazie a Netflix:
Per chi non lo conoscesse, il Death Note è un libro appartenente agli Shinigami, divinità della morte del folklore giapponese che talvolta capitano nelle mani di semplici umani. Ma non è un normale quaderno: difatti, scrivendo il nome di una persona al suoi interno, essa morirà. Il potere di un Dio, insomma, si reifica nelle mani di un mortale, essere, per antonomasia, limitato nelle sue possibilità.
Il fortunato protagonista dell’anime, nonché possessore del Death Note, è Light Yagami un ragazzo cinico e megalomane, che sembra non avere alcun tipo di empatia col prossimo se non rapporti di tipo strumentale. Tutte le brutture dell’uomo contemporaneo portate allo stremo.
Sì, in Death Note, gli Dei si mescolano agli uomini, con i secondi che cercano di sostituirsi ai primi. Forse, delle tre produzioni sopracitate, il manga giapponese è quella che più risente di quell’ottimismo della prima modernità ma anche il più disfattista, visto l’epilogo finale.
Insomma, che lo si cerchi o che si voglia comunicare con lui, il concetto di Dio è (e sarà) sempre nei nostri discorsi. Nelle riflessioni dopo una rappresaglia, nello spazio di un pianto per la morte di un nostro caro, nella paura così come nella preghiera.
Ma, come avrete avuto modo di leggere, Dio è anche al cinema.
Enrico Ciccarelli