Otto anni fa ero davanti alla televisione, con gli occhi quasi lucidi di lacrime, ad ascoltare commosso Barack Obama appena eletto presidente USA. “Yes, we can” fu un armonioso intercalare che si pose a mo’ di rituale magico tra noi e un futuro improvvisamente vivido di nuove, rosee speranze.
Il mito del primo presidente afroamericano, sincero democratico, sembrava patinare il mondo di un sereno ottimismo, nonostante la catastrofe finanziaria che di lì a poco lo avrebbe travolto nella peggiore crisi economica di tutti i tempi.
Otto anni dopo, mentre si appresta a lasciare per sempre la Casa Bianca, un dovere morale mi spinge ad esternare il mio rammarico, ad ammettere che quella gioia fu riposta invano, che nulla, se non in peggio, è cambiato e che ho strappato ormai da tempo il poster di Obama che avevo appeso accanto al letto.
Al resto, come sempre, penserà la storia; ma il giudizio di un’epoca sorta sotto ben altri auspici non può che essere spietato, feroce, gravato dalla rabbia e dalla delusione.
Il mondo non è affatto un posto migliore, e le prospettive sfilacciate tra Hillary Clinton, Donald Trump e l’equilibrio sottile dei sondaggi sono addirittura più paurose. Certo Obama ha dovuto fronteggiare delle sfide improbe e convivere con un Congresso a maggioranza repubblicana per la maggior parte della sua presidenza, facendo di necessità virtù. Non basta tuttavia a sfamare il sentimento di rivalsa e il grido di vendetta soffocato in gola che urla di questioni irresolute, promesse assassinate, fatali errori.
Tra i principali traguardi possiamo annoverare le contestatissime riforme della Sanità e di Wall Street: eque nella genesi, ma poco efficaci nei loro effetti concreti di offrire una sanità pubblica universale e maggiori controlli e trasparenza sui colossi dei mercati finanziari.
L’impegno in favore dell’ambiente, invece, al momento di agire “prima che sia troppo tardi”, è diventato l’ossessione di raggiungere l’indipendenza energetica, a tutto vantaggio delle disastrose procedure di fracking e delle compagnie petrolifere.
La sensibilità verso il rispetto dei diritti umani, dietro la bandierina della chiusura di Guantanamo, ci racconta di una nazione ancora profondamente spaccata in due: ricorderemo ancora a lungo le proteste di Ferguson e il paradosso grottesco di minoranze etniche violentate con viltà proprio durante il governo del primo presidente nero.
Sul piano estero, poi, gli Stati Uniti di Obama hanno saputo offrire il peggio di sé, fallendo miseramente nel ricomporre gli equilibri in Afghanistan ed Iraq, intervenendo senza criterio alcuno – se non il più classico e stucchevole imperialismo made in USA – in Libia e Siria, interferendo con la Russia e l’Ucraina al punto da condurre alle soglie di una nuova Guerra Fredda, e naturalmente senza aver saputo arginare la piaga terroristica dell’ISIS.
Posto che non riesco a concepire come possa fregiarsi del Nobel per la Pace un uomo che abbia sulla coscienza anche una sola vita umana, l’impressione nitida è che Obama abbia concentrato i suoi sforzi sul conciliare gli equilibri interni al suo Paese, riportando l’occupazione ai livelli pre-crisi, dimentico che la globalizzazione da loro stessi esportata – spesso con la forza – come modello economico e sociale ha interconnesso i destini dell’umanità in maniera molto più intensa e fluida di qualche decennio fa: e sappiamo bene quanto un semplice batter d’ali di farfalla possa sgretolare quelle fondamenta frettolosamente ricostruite per dare una parvenza di credibilità al Dio Capitalismo.
Difficile perdonare un uomo su cui le giovani ed ingenue speranze avevano fantasticato idilli di equità sociale e giustizia universale. Ancora più difficile accettare l’idea che il suo fallimento abbia spalancato le porte della Casa Bianca a personaggi del calibro di Trump e Clinton, due abomini della politica a stelle e strisce, due facce della stessa medaglia, corrotta nell’animo e nel portafoglio.
Obama se ne va in silenzio dopo essere giunto fra le acclamazioni: e l’utopia cristallizzata nelle sue parole, subitaneamente smentite dall’amara gogna della realtà, faranno di lui l’ennesima occasione persa, la controprova che l’umanità non può salvarsi da se stessa, che anche i sogni necessitano di solide radici su cui crescere e nutrirsi, prima di dare buoni frutti.
Buona domenica, lettori cari.
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli