La notizia ha sollevato malumori tra chi legge fumetti: il WOW (il museo dei fumetti di Milano) è stato escluso dai contributi del MiBACT per l’emergenza Covid in quanto “luogo espositivo di cose prive della qualità di beni culturali”. Lo scandalo è durato giusto il tempo del mea culpa del ministro Dario Franceschini, affrettatosi a salutare i fumetti come arte e a sbloccare lo stanziamento. Tutto risolto, quindi: il tempo di chiarire un equivoco e amici come prima.
O forse non è così semplice. Forse in Italia, nonostante la fama trasversale degli Zerocalcare in seno a un pubblico variegato – anche tra chi non li legge, i fumetti – grazie (anche) alla riconosciuta attualità delle tematiche politiche toccate in maniera efficace, abbiamo ancora grandi difficoltà ad approcciarci con questa forma d’arte senza mettere le mani avanti, e non ce ne dovremmo accorgere solo ora.
Altro segnale esemplare di questo problema: un cartello che mesi fa alla libreria Feltrinelli, per invogliare il consumatore a esplorare il reparto, dichiarava “C’è ancora chi si ostina a chiamarli fumetti (Graphic Novel, Anime, Nuvole parlanti)”. Ecco il vero problema: è il nome che non va bene. Il fumetto è popolare, e ciò che è popolare è indice di volgarità e infantilismo. Pensiamoci bene: quando diciamo fumetto non è semplice associarlo immediatamente a Topolino? Nulla di strano: per decenni Topolino è stata una delle prime letture autonome dei bambini italiani. E Topolino è l’esempio principe usato da personalità politiche o culturali di peso per squalificare le argomentazioni di un avversario. Poco conta che Topolino, in realtà, sia una delle palestre linguistiche più creative e formative per bambini e adulti se volessimo anche solo limitarci all’uso dei dialoghi: si torna a una concezione del fumetto come di qualcosa di ben delimitato, una massa inerte ferma a un’idea stereotipata di almeno sessant’anni fa, diretta a uno specifico target di pubblico mai evolutosi nel tempo e sempre uguale a se stesso, privo delle qualità adulte (leggi: colte) di un lettore elitario. È per questo che il termine graphic novel è stato inventato: per elevare un certo tipo di fumetto impegnato agli occhi di chi non si sarebbe mai sporcato a leggerli, dandogli così una passata di rispettabilità e tendenza al di fuori del comune.
Alan Moore, il più grande sceneggiatore di fumetti di sempre, rigetta con sdegno il termine graphic novel in quanto definizione borghese per un intrattenimento nato popolare. È giusto, a dispetto della gentrificazione fumettistica in atto. Il fumetto è fumetto come tautologicamente il cinema è cinema, il romanzo è il romanzo, la musica è musica e le serie tv sono serie tv. Non c’è bisogno di cambiargli nome per renderli contenitori culturali più o meno validi. A meno che non siate fautori entusiasti dei Netflix della cultura convinti che gli artisti siano alternative ai comici: allora si capisce come mai il compianto Alberto Arbasino, rievocando la sua esperienza da deputato tra l’83 e l’87, parlasse del dicastero dei beni culturali come il penultimo tra i meno ambiti dai partiti: l’alcatraz dei trombati assegnata a politici in disgrazia. Domanda retorica: e se il problema del pesce che puzza cominciasse dalla testa, ergo dalle istituzioni? E ancora: se il WOW avesse avuto come sigla più snob “Museo della Graphic Novel” si sarebbe vista inizialmente rigettare i fondi?
Potremmo addurre come giustificazione al sospetto nei confronti del fumetto italiano quale prodotto culturale un altro motivo: noi italiani non abbiamo alle spalle una scuola fumettistica solida come quelle franco-belga, giapponese, argentina o statunitense. Mancandoci grandi maestri fondativi di una tradizione illustre è normale che nel 2020 la difficoltà di associare il fumetto alla cultura anche da parte degli organi statali preposti sia prassi. Potremmo dirlo: e diremmo una assurdità cosmica.
L’Italia ha una tradizione fumettistica popolare e colta al tempo stesso, capace di formare generazioni di lettori e sfornare artisti ammirati in tutto il mondo: Pratt, Battaglia, Toppi, le sorelle Giussani con il loro Diabolik, Berardi/Milazzo (con il western definitivo: Ken Parker), Sclavi (che ha inventato Dylan Dog), Ambrosini, Bonvi, Crepax, Manara, Magnus, per passare alla generazione cannibale dei Pazienza, Scòzzari, Liberatore, Mattioli e Tamburini, l’umorismo di Ortolani (Rat-Man) e Silver (Lupo Alberto), Enoch, Giardino, Gipi, il fumetto dal taglio raffinatissimo di Igort, Barbara Canepa, Manuele Fior, Fumettibrutti, Mirka Andolfo, Barbara Baldi, Loputyn – e tanti altri qui lasciati fuori perché non si potrebbe pretendere di fare una storia esaustiva della letteratura italiana degli ultimi 50 anni in un saggio, figurarsi quella del fumetto in poche righe, tra riconosciuti maestri e giovani leve.
Il concetto è semplice: dal Corriere dei Piccoli alla Bonelli, dalle produzioni seriali a quelle più ricercate, il bacino fumettistico italiano dagli anni ’60 a oggi è ricchissimo di stili e scuole diverse tra loro. Ma già da prima che gli Oreste del Buono e gli Umberto Eco si spendessero per nobilitare il medium, questi era già fonte creativa per altri artisti di altri campi contigui. Dino Buzzati, lo scrittore del Deserto dei Tartari, era un appassionato di fumetti, e tra i suoi libri non manca un Poema a fumetti. Federico Fellini, il regista italiano di cinema più celebrato insieme a Leone, si forma come vignettista nella rivista satirica Marco Aurelio e nei suoi film omaggerà sempre il fumetto, una delle sue forme di ispirazione visive predilette. Stiamo parlando di personalità che il loro picco creativo lo hanno raggiunto negli anni ’60 del XX secolo. Quando Umberto Eco dirà che per divertirsi legge Hegel e per impegnarsi Corto Maltese, o che può leggere per giorni la Bibbia, Omero e Dylan Dog senza annoiarsi, saranno passati anni dai capolavori di Buzzati e Fellini.
Questa tradizione continua ancora oggi. La Bonelli (la più popolare casa editrice fumettistica italiana) continua a far uscire Tex in edicola, o il cult Dylan Dog, alternandolo a nuovi esperimenti come Mercurio Loi o Orfani, in una marea di ristampe, nuovi numeri e speciali. I personaggi della Bonelli, da Zagor a Nathan Never, sono icone del fumetto italiano, e lo stesso può dirsi di altri non bonelliani quali Corto Maltese, Valentina, Cattivik, Giuseppe Bergman, Zanardi, Pompeo, Squeak the mouse, Ranxerox, Gea o l’Armadillo; riconosciuti, chi più chi meno (autori – personaggi – opere) anche da chi non li ha mai letti. E non esiste solo la Bonelli, ma anche realtà più diversificate che promuovono autori italiani (e stranieri) quali la Oblomov, la Coconino, Shockdowm, e naturalmente la BAO publishing e tante altre. I fumetti sono sia cultura che intrattenimento, naturalmente.
Come riconoscere e legittimare la dignità artistica del fumetto? Beh, leggendo fumetti. Leggerli senza stare a guardare le etichette di graphic novel, anime (che poi è l’animazione giapponese) o il folle nuvole parlanti, probabilmente mai usato da un parlante italiano madrelingua.
Potremmo iniziare dal più importante fumettaro italiano di sempre: Hugo Pratt. L’inventore di Corto Maltese è stato quel trait d’union che mancava ai fumettisti italiani che si barcamenavano tra la ricerca di un aggancio alla più nobilitata letteratura, con riduzioni di classici per ragazzi o scolastici, e una nuova concezione del fumetto come forma d’arte autonoma. “Una ballata del mare salato” del 1967 è uno dei 100 libri più importanti del ‘900 secondo la classifica di Le Monde. È un mondo di linee ondulate e orizzonti sconfinati dove Stevenson incontra Conrad, espresso con modalità che né Stevenson né Conrad avrebbero potuto usare. Pratt ha coniato il termine letteratura disegnata perché “disegno la mia scrittura e scrivo i miei disegni”. Non avendo attecchito, continuiamo a chiamarli senza timore fumetti.
Nicola Laurenza