L’orrore della guerra in Siria non si ferma alle bombe e ai massacri ingiustificati di civili. Una denuncia lanciata da Amnesty International mette davanti agli occhi dell’Occidente nuove atrocità: nel carcere di Saydnaya, a nord di Damasco, fra le 5.000 e le 13.000 persone sono state impiccate negli anni fra il 2011 e il 2015.
A rivelarlo è un rapporto di Amnesty International rilasciato da poco, che svela come il carcere governativo di Saydnaya sia diventato, da quando è iniziata la guerra in Siria, un vero e proprio teatro degli orrori, dove i detenuti sono stati torturati, privati di cibo e sottoposti a impiccagioni di massa dopo processi sommari. Il carcere di Saydnaya, in realtà operativo già da tempo, era già stato segnalato nel 1987 come luogo di tortura da parte dell’ONG, ma la stessa Amnesty International ammette che la situazione è nettamente peggiorata dal 2011. Nella sua denuncia, inoltre, l’ONG specifica che il rapporto si ferma al dicembre 2015, ma non esclude che determinate pratiche si siano verificate anche nei mesi a seguire.
Amnesty, inoltre, riporta anche il modo in cui queste impiccagioni di massa sono avvenute. Nel giorno stabilito per l’impiccagione, i detenuti vengono prelevati dalle loro celle e viene loro detto che stanno per essere trasferiti nell’altro ramo del carcere di Saydnaya. Successivamente vengono invece portati in delle celle sotterranee, debitamente bendati, dove vengono picchiati e poi impiccati dopo un processo che ne ha decretato la condanna a morte. In tutto questo, le vittime non sono consapevoli né del luogo in cui si trovano né di cosa sta succedendo: la loro condanna a morte viene riferita soltanto pochi minuti prima che vengano impiccati. I loro corpi vengono poi trasportati in un camion e lasciati in delle fosse comuni.
Tutto questo è avvenuto due volte a settimana per anni. E in ogni occasione tra le 20 e le 50 persone sono state impiccate. Secondo i calcoli, quindi, si stima che fra le 5.000 e le 13.000 persone possono essere state uccise in questo modo. L’indagine, inoltre, si basa sull’ascolto e sulle interviste a testimoni chiave (in genere guardie carcerarie o ex-ufficiali che facevano parte del comitato esecutivo o anche ex prigionieri) condotte nella Turchia del Sud e in altri luoghi del Medio Oriente, dal momento che agli attivisti di Amnesty International è stato vietato l’ingresso in Siria fin dal 2011.
«Saydnaya è la fine della vita, la fine del genere umano» è la frase di Abu Muhammed, ex guardia carceraria, che apre il rapporto sul carcere a nord di Damasco.
Saydnaya è diventata così il simbolo di una repressione politica che sfocia in crimini contro l’umanità. Saydnaya è il luogo dal quale, una volta entrati, difficilmente se ne esce: «Il 75% delle persone che entra a Saydnaya non ne esce fuori vivo. È come un tribunale dove la maggior parte dei giudici fanno parte della polizia segreta», aveva già denunciato nel maggio 2016 un avvocato siriano che lavora con i detenuti ad Hama, come riportato dall’Indipendent.
Ma non vi sono soltanto impiccagioni di massa. Sebbene le migliaia di persone impiccate sia il numero che più spaventi, sono le stesse condizioni detentive dei prigionieri a destare scalpore e a contribuire a far parlare di crimini contro l’umanità. Ai civili che sono incarcerati nell’edificio rosso (mentre l’edificio bianco è destinato ai detenuti provenienti dall’esercito) sono stati ripetutamente negati i diritti fondamentali: niente acqua né cibo, mancanza di cure e di medicine. Sistematicamente torturati e picchiati, forzati al silenzio, molti di loro hanno sviluppato psicosi e malattie mentali.
«Apparentemente il loro obiettivo principale è umiliare, degradare, de-umanizzare e distruggere ogni senso di dignità o speranza», spiega Amnesty International attraverso le testimonianze di detenuti che sono riusciti a salvarsi. Si tratterebbe, quindi, di una vera e propria politica di sterminio metodicamente praticata, finalizzata ad abbattere – fisicamente e psicologicamente – ogni resistenza.
In totale, sarebbero 17.723 le persone uccise nel carcere di Saydnaya nei quattro anni indagati dal rapporto. Un numero non indifferente, che si aggiunge alle migliaia di persone morte in questi anni in Siria.
Elisabetta Elia