Con “American Honey” la regista inglese, Andrea Arnold, ci da l’opportunità di viaggiare per il Midwest – grazie anche alla macchina a mano che rende tutto più reale – accompagnati da una moderna versione di Peter Pan, Krystal (Riley Keough). Questa raccoglie letteralmente ragazzi disadattati e offre loro un lavoro, trasformando il sogno del viaggio on the road in una mera sfaccettatura del capitalismo. Ognuno di questi ragazzi ha una storia difficile alle spalle, l’unica alternativa è vivere una vita da reietti in un’economia precaria, quindi decidono di unirsi a questa cricca. Tra di loro emerge Star (Sasha Lane), una ragazza appena adolescente costretta a vivere una vita da adulta per colpa di sua madre, e che incontrerà Jake (Shia LaBeouf). Tutti questi personaggi creeranno un vero e proprio campo elettromagnetico emotivo nel formato ristretto in cui si presenta il film (1.33:1 // 4:3), che ci condurrà direttamente nella loro esasperazione, ambientata nei territori di quella parte di America dimenticata che, anche grazie alla fotografia di Robbie Ryan, non ci è mai sembrata così eterea.
“Si fanno film non per necessità, ma per risolvere problemi” – ha detto in un’intervista Xavier Dolan (Mommy). Per fare l’autore e dirigere un film basta semplicemente avere il coraggio di raccontare qualcosa a modo proprio, andando oltre gli schemi, come ha fatto lo stesso regista alla tenera età di 19 anni con “J’ai tué ma mère” aggiudicandosi un premio a Cannes. Nella stessa intervista egli spiega di come, almeno al cinema, abbia dovuto sacrificare sua madre per avverare il proprio sogno, ammettendo quindi che, metaforicamente parlando, bisogna ammettere qualche sacrificio. Non necessariamente la storia raccontata deve essere straordinaria, può essere un modo diverso di raccontare una parentesi di vita o addirittura un episodio che ci appartiene, corredo della nostra quotidianità. Andrea Arnold (Fish Tank) ci insegna proprio questo dirigendo il recente American Honey, ambientando una sua pellicola per la prima volta in un’America mai vista prima, lontano dal famoso sogno, e aggiudicandosi anche lei un premio a Cannes.
“Sono ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono” – Afferma la stessa regista in un’intervista. Effettivamente delle storie sugli emarginati della società il cinema ne è esasperato, la vera rivoluzione la fa lei, che, come altri, ci racconta dei combattenti, di quegli stessi esclusi che pur non apportando alcuna modifica alle loro misere vite fanno delle scelte drastiche per continuare a sopravvivere in qualche modo, prosperando contro ogni previsione. Tra i tanti che hanno “osato” prima di lei ricordiamo Harmony Korine con Gummo (1997), che raccontava di preadolescenti che arrancavano in una cittadina del sud devastata da un tornado, ma anche Jonathan Dayton, Valerie Faris, Jason Reitman, Diablo Cody, i quali, con nostalgia o meno, ci hanno mostrato scorci di vita mai del tutto considerati. A conti fatti sono quasi tutti autori misconosciuti che però in questo fertile periodo stanno trovando la loro acclamazione più di prima in una congruenza indipendente e una serie umanistica dando la possibilità di guardare il mondo da un altro punto di vista.
Trailer: American Honey
Federica Migliore