Quando il treno si avvicina alla stazione inizio a domandarmi come farò a riconoscere M., un membro della comune dove passerò le prossime tre settimane in qualità di volontaria. Siamo in contatto già da qualche mese, ma non ho la minima idea di che età o che faccia abbia.
Scendo dal treno che sono da poco passate le sette. La stazione non è altro che una panchina sormontata da una pensilina, in mezzo tra i due binari. Da un lato si scorge qualche casa, dall’altro una distesa infinita di campi.
Mi bastano pochi secondi per riconoscere M. Tra tante facce stanche di persone che tornano a casa dal lavoro e si affrettano verso le macchine e le biciclette parcheggiate, una ragazza alta con i capelli blu mi viene incontro sorridendo. Parcheggiamo nel cortile di quella che sembra un’ordinaria fattoria, un po’ malmessa. Appena entrati, sentiamo voci allegre provenire dal piano di sopra.
Una decina di persone di età compresa tra i venti e i cinquant’anni affollano tre divani, posizionati davanti a un tavolo su cui campeggiano due pentole enormi e fumanti, forchette, bicchieri e un gioco da tavolo. Improvvisamente una bambina scalza e bionda mi corre incontro urlando il mio nome. Ancora non conosco nessuna di queste persone, ma ho la sensazione di essere appena tornata a casa.
Vita in comune
«Il tetto della stalla è crollato in primavera. La stessa tempesta che si è portata via l’albero vicino all’edificio principale. Era altissimo, più alto della casa. Fortuna che dentro era cavo e che non si è abbattuto sul tetto, altrimenti avremmo avuto un bel problema…» mi racconta P. mentre camminiamo in giardino con una tazza di caffè in mano.
Mi rendo conto che le prime impressioni erano corrette: solo “Casa Uno” è abitata, mentre gli altri edifici sono in stato di abbandono.
La fattoria era di proprietà di una donna della zona. Alla sua morte, i figli che ormai si erano trasferiti in città con le rispettive famiglie non hanno voluto vendere per rispetto nei confronti della madre. Dopo due generazioni e la fattoria che si deteriorava sempre di più, hanno deciso che era il momento di trovare una soluzione.
Il caso volle che nello stesso momento i membri della comune stavano iniziando a cercare una nuova residenza. L’esperimento è iniziato nel 2011. A quel tempo il gruppo era composto da sette persone, che condividevano un appartamento spazioso in città.
I principi di base della comune erano già lì: strutture democratiche di base, processo decisionale consensuale, risoluzione dei conflitti, reddito comune, divisione solidale del lavoro, veganismo, sostenibilità ambientale.
Democrazia di base nella comune
«Le persone di “fuori” spesso non hanno la possibilità di avere un collettivo intorno che si preoccupa per te e che ti aiuta a risolvere i problemi. A volte non capiscono quanto sia importante per il benessere personale e per quello del gruppo avere un’assemblea settimanale». Democrazia di base nella comune significa prendere le decisioni in maniera consensuale. Dunque non è la maggioranza a decidere, ma ogni decisione viene presa discutendo e valutando l’opinione di ciascuno.
«Spesso è estenuante parlare per ore e non sempre è facile trovare una soluzione che vada bene per tutti. A volte nessuno è davvero contento, ma almeno nessuno è troppo scontento» racconta L.
Trovare dei compromessi che rispettino la libertà individuale ma anche il benessere collettivo è un processo lungo. Per questo ogni settimana il gruppo si incontra in due assemblee: una per prendere le decisioni organizzative (situazione finanziaria, nuovi progetti per la comune, acquisti, eccetera), la seconda per discutere le dinamiche sociali e personali dei membri e trovare soluzioni costruttive ai piccoli e grandi conflitti che sorgono nella vita di tutti i giorni.
Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni
Oggi nella comune vivono stabilmente solo cinque persone. Alcuni membri del 2011 sono andati via e nuovi membri si sono aggiunti. La decisione di acquistare la fattoria nel 2017 è stata uno spartiacque.
«È stato un passo importante perché molti di noi probabilmente non si sarebbero mai potuti permettere di comprare una casa. Con uno sforzo congiunto adesso ne abbiamo una».
Vivere in comune significa condividere tutte le risorse: denaro, ma anche conoscenze, tempo, contatti.
Alcuni membri hanno un lavoro “normale” in città, mentre altri lavorano solo all’interno della comune. Il reddito di ciascuno appartiene alla comunità e la situazione finanziaria viene discussa in assemblea. Ognuno può prendere il denaro di cui ha bisogno nel rispetto del benessere collettivo.
«Sostenibilità non è solo iniziare a coltivare il cibo che mangiamo, evitare di mangiare carne e prodotti caseari o comprare prodotti biologici. Vogliamo anche creare strutture socialmente sostenibili, ad esempio per l’integrazione degli anziani o dei malati».
Nella comune tutti lavorano perché ogni cosa è lavoro: dal lavoro emotivo al lavoro domestico, dalla cura del giardino alla produzione artistica e culinaria. Il lavoro domestico è gestito attraverso un sistema di punti: per ogni faccenda svolta si guadagnano un certo numero di punti. Tutti hanno lo stesso obiettivo mensile da raggiungere e ognuno può scegliere le faccende che preferisce.
«Ognuno lavora secondo i propri ritmi e le proprie esigenze. C’è chi preferisce fare tante piccole cose ogni giorno e chi invece sente il bisogno di pulire da cima a fondo la cucina una volta al mese. L’importante è che ognuno faccia la propria parte e che non sia motivo di conflitto o di oppressione».
Stili di vita comuni
Quando saluto U. e P. non riesco a credere che sono passati solo pochi giorni.
Proprio oggi si conclude la “settimana di costruzione”, un’iniziativa organizzata per rimettere in sesto il fienile. La chiamata ha attirato più di quindici persone che per una settimana si sono stabilite nella comune per aiutare con i lavori di ricostruzione e di giardinaggio.
Ogni giorno la truppa ha lavorato fianco a fianco costruendo mobili e riparando porte, ripulendo il cortile dalle macerie e raccogliendo patate; abbiamo mangiato gomito a gomito sotto il grande castagno che sorge al centro del giardino, abbiamo guardato le stelle e suonato la chitarra davanti a un falò.
«Beh, allora ci vediamo a novembre!». A novembre ci sarà una festa alla quale saranno invitati non solo amici, attivisti e compagni di altre comuni, ma anche tutto il paese. Non è stato facile guadagnarsi la fiducia dei vicini, mi racconta M., ma piano piano le persone hanno accettato la presenza di questo gruppo strampalato.
«Ormai ci sono dei bambini che vengono a giocare qui ogni pomeriggio. A volte le persone ci portano mobili, giocattoli o altre cose che non usano più e che non vogliono buttare. Una vicina è venuta a chiedere aiuto perché il marito la maltrattava. Sono piccole cose, ma avere il supporto e il riconoscimento della comunità mi fa capire che stiamo facendo qualcosa di buono».
Mentre U. e P. si incamminano verso la stazione mi ritrovo a pensare al tempo passato qui e a quanto questo abbia cambiato la mia prospettiva. Fino a questo momento l’idea di “comune” era per me qualcosa di assolutamente astratto, il tipico sogno da adolescente che vorrebbe essere nata negli anni ’60. Ora invece l’idea di “comune” ha una faccia, anzi molte facce, e non sembra più un’utopia così lontana.
Claudia Tatangelo
* Il racconto è basato su fatti reali ma la visione espressa è strettamente personale. Tutti i nomi sono stati cambiati per rispettare la privacy delle persone.
Grazie. Uno spaccato interessante e su una realtà poco nota.