L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, è per eccellenza la data che dà il via all’allestimento decorazioni natalizie. Casa, piazze e vie illuminate, alberi conciati a festa, e, soprattutto a Napoli, l’immancabile Presepe, che da tempo immemore è diventato il simbolo della tradizione del Natale partenopeo.

Ma da dove proviene questa oramai plurisecolare tradizione? 

Il termine “presepe” deriva dal latino, “praesepium”, che significa mangiatoia e che fu utilizzato dagli evangelisti Matteo e Luca per descrivere la Natività di Cristo. Ma la prima rappresentazione, per come noi la intendiamo oggi, è frutto dell’idea di San Francesco d’Assisi, che, ispirato dalle celebrazioni per la nascita di Gesù osservate a Betlemme,  propose al papa Onorio III importare questa tradizione in Italia. Su consenso del pontefice, la notte della vigilia di Natale del 1223, a Greccio, in Umbria, San Francesco creò il primo Presepe vivente della storia: la mangiatoia, il bue, l’asinello ed un gruppo di frati con le fiaccole ad illuminare la scena.

La prima rappresentazione completa della Sacra Famiglia si deve ad Arnolfo di Cambio, scultore che nel 1283 realizzò delle statuette rappresentanti San Giuseppe, la Madonna, Gesù bambino e i tre Re Magi. Da allora, il Presepe iniziò a diffondersi rapidamente, soprattutto nel Regno di Napoli. Soltanto dal 1500 però, con San Gaetano di Thiene, ebbe inizio l’inserimento di personaggi secondari. Sotto il regno di Carlo III, nacque la professione del Figurinaio, ossia il creatore di statuette. Nel secolo successivo, dal 1600 in poi, grazie agli artigiani napoletani, il presepe acquisì una connotazione ancora nuova, più vicina al reale, con l’aggiunta, dei fruttivendoli, delle botteghe, dei pastori. Ma quello che noi oggi chiamiamo Presepe nacque soltanto nel 1700, quando la tradizione dell’artigianato raggiunse l’apice. A Napoli il Presepe è diventato non soltanto il simbolo della Natività, ma una rappresentazione della vita che offre a tutti la possibilità di sbizzarrirsi senza regole, ma senza dimenticare che, nel Presepe, nulla è fine a se stesso: tutti hanno un ruolo ed una simbologia precisa, fusione di cristianesimo e paganesimo.

Il Presepe, indipendentemente dalle sue dimensioni, è sempre un luogo montuoso fatto di sughero e di sentieri tortuosi, su cui i pastori camminano scendendo a valle, dove è sempre situata la grotta, ad indicare che è possibile trovare il bene solo percorrendo le vie del male. Tutto, nel Presepe, è più di ciò che sembra: il pozzo rappresenta la bocca dell’Inferno, o semplicemente l’oscurità sotterranea nella quale ogni uomo può cadere; il ponte rappresenta il passaggio verso l’ignoto, il mistero che aleggia nell’aria nella notte di Natale, rimando alle leggende sugli incontri terrificanti che è possibile fare; la locanda è il simbolo della peccaminosità dell’uomo, luogo di lussurie dal quale Giuseppe e Maria furono scacciati al loro arrivo a Betlemme; il fiume è lo scorrere del tempo, l’acqua della rinascita e della vita; il mulino indica lo scorrere del tempo, il tempo della vita, poiché è qui che si produce la farina per il pane, cibo universale; la fontana è il luogo dei miracoli, delle apparizioni perché secondo la leggenda qui l’arcangelo Gabriele avrebbe dato il suo annuncio alla Vergine.

Ed ancora, i pastori. Gli elementi essenziali, il bue (il Bene) e l’asino (il Male), gli animali che alitando sulla mangiatoia risaldarono Gesù, sono anche le due forze che, se bilanciate, tengono in equilibrio il mondo; i Tre Re Magi, uno bianco, uno rossastro ed uno nero, rappresentano le tre fasi del tempo, mattina, mezzogiorno e sera, ed il viaggio dell’astro che, da Oriente, viene ad assistere alla nascita di Cristo, momento della luce in cui il tempo si ferma; immancabili anche le lavandaie, che rappresentano le levatrici che aiutarono Maria nel parto e che lavano panni bianchi, simbolo della purezza della Vergine; Benino, il pastore dormiente, è assolutamente essenziale perché si ritiene che l’intera scena del Presepe non sia altro che un sogno del pastorello. A volte è posto in un angolino, ma in realtà dovrebbe stare sulla cima del monte ed ogni personaggio dovrebbe da lì provenire. Benino è il simbolo dell’intera umanità, capace di avvicinarsi a Cristo solo nei sogni, quando è libera dalle tentazioni che la vincolano alla materia e al peccato. Troviamo poi i mendicanti, i poverelli, ossia le anime del Purgatorio che si recano da Gesù per chiedere una preghiera; l’ubriacone, chiamato Ciccibacc ngopp a bott, grasso e rosso in viso, situato fuori la locanda con il fiasco oppure intento a trasportare un carretto con il vino, rappresenta invece un simbolo del paganesimo, l’orgiasmo dionisiaco, la sottile linea che divide sacro e profano; troviamo poi, pescatore e cacciatore, due figure complementari che rappresentano la vita e la morte, il ciclo della vita: il pescatore si trova in alto (mondo celeste), il cacciatore in basso (mondo degli Inferi); i pesci nel fiume sono simbolo dell’immortalità: anche Cristo, al tempo delle persecuzioni contro i cristiani veniva indicato con il simbolo di un pesce. Tutti insieme, pastori e pecore, rappresentano il gregge dei fedeli, venuto ad assistere alla nascita di Gesù, a conoscere la luce, divina e terrena a un tempo.

La “storia” del Presepe è ripercorsa dalla Cantata dei Pastori, un’opera del teatro religioso gesuitico tardo-seicentesco, scritta per contrastare la Commedia dell’Arte e narrante il viaggio di Maria e Giuseppe per far nascere Gesù tra le insidie dei Diavoli, che cercano invano di impedirlo. Ad accompagnarli, due figure tipicamente napoletane: Razzullo, scrivano assoldato per il censimento, e Sarchiapone, barbiere pazzo in fuga per omicidio. Grazie all’aiuto degli Angeli, il bene trionfa e l’opera si conclude con l’adorazione di tutti i classici pastori del presepe.

Pubblicata per la prima volta da Andrea Perrucci nel 1698, l’opera, conobbe un successo straordinario: è tutt’oggi frutto di rappresentazioni, come quella di Peppe Barra, che ancora una volta tornerà al Politeama di Napoli, dal 20 dicembre al 6 gennaio. È l’essenza della tradizione partenopea a parlare, in quest’opera a metà tra sacro e profano, tra lingua arcadica colta e dialetto popolano scurrile. Un po’ come tutta la tradizione del Presepe.

Da oltre tre secoli non c’è Natale senza “Cantata dei Pastori”. 
Da oltre quarant’anni non c’è “Cantata dei Pastori” senza Peppe Barra.

Sonia Zeno

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