Era circa due anni fa quando ci imbattemmo in un corto, Nuraghes si chiamava, uno di quelli presenti su Youtube fatto con pochi spicci e attori semiprofessionisti. Un prodotto che si autoproclamava amatoriale ma che raccontava la storia di un’antica civiltà sarda con un estro e una messinscena prodigiosa. E proprio in quel momento che sì fece strada in noi, il pensiero di quanto fosse profondo – e attingibile per lo sfruttamento cinematografico – il pozzo di mitologia e folklore della nostra cultura.
Finalmente il momento di sfruttarlo sembra essere arrivato con Il Primo Re di Matteo Rovere. “Sembra”, e lo diciamo incrociando le dita, perché il sentiment attorno al film è uno dei più positivi da molto tempo a questa parte, con critiche tendenzialmente positive e incassi incoraggianti (da leggere chiaramente alla luce dei lauti investimenti fatti).
Per Il Primo Re c’è addirittura chi grida al capolavoro italiano.
Noi freniamo sugli entusiasmi.
Ma, per educazione, iniziamo dalle cose positive del film: da premiare sono senz’altro la voglia di portare sul grande schermo una storia nuova, fondativa, parlata in protolatino e interamente sottotitolata. Un lavoraccio nato dall’esigenza di autenticità che secondo gli autori avrebbe aiutato nell’immersione del passato mitico di Romolo e Remo, e di tutti quegli avvenimenti che hanno preceduto la fondazione di Roma.
La prima parte del film è solo in apparenza narrativa: gli eventi sono volti a descrivere il calore, il legame carnale, la fragile ma intensa fratellanza fra Remo e Romolo interpretati rispettivamente dai perfetti Alessandro Borghi (già divo del cinema italiano) e Alessio Lapice. Un rapporto composito (come quello di tutti i fratelli) fatto di amore viscerale, ma anche esposto alle subacquee tensioni, conseguenze di un mondo dominato dalla competizione e dall’incorreggibile volontà umana di sostituirsi a Dio (il potere è un mezzo per arrivare a ciò, la lettura di Rovere è chiara).
C’è un momento, infatti, dove un imperioso Remo – idealmente e performativamente – sfida gli dei. In quel momento il protagonista della pellicola realizza uno sgancio semantico: gli uomini temono dio e per questo Remo, più forte, più astuto, più fortunato deve farsi temere dai suoi uomini. Deve diventare un dio, insomma.
Quindi Rovere non trascura nel modo più assoluto l’approfondimento psicologico dei personaggi, lavoro evidente anche nell’illustrazione delle dimensioni rilevanti dell’uomo pre-civilizzato: l’esigenza di socialità dovuta a un mondo ostile, la dimensione spirituale come appiglio e causa di timore per la divinità invisibile ma ben presente, il potere come strumento per dominare le proprie paure, gli altri, ma soprattutto se stessi. Dimensioni da cui scaturiscono le azioni dei protagonisti, a tratti all’apparenza insensate, precipitose (pensiamo a quando Remo incendia il villaggio appena conquistato solo per la rivelazione di una profezia) ma assolutamente in linea con questa impostazione. D’altronde si parla di uomini la cui razionalità è tutt’altro che sviluppata, in balia dei propri istinti e dei propri umori, orfani di quella diga di norme civili che possano tenerli a freno.
Centrale e ben rappresentato ne Il Primo Re è il senso di penuria provato dai due protagonisti: il supplizio di Romolo e Remo sembra, infatti, raccontare allegoricamente il cammino dell’essere umano nella storia, questo segnato costantemente da difficoltà materiali e dalla palese inferiorità rispetto al mondo esterno (la natura incontrollata, le belve). Ma la loro avventura simboleggia anche l’affermazione. La prova che l’essere più debole, a volte, può farcela. Curioso, in questo senso, è il taglio dato da Rovere al concetto di natura umana: feroce e spietata, dominata dal pericolo e dalla paura. Un mondo di lupi, dal quale si può scampare solo unendosi agli altri e facendosi comunità.
Comunità: è questo che d’altronde cercano i due fratelli fin dall’inizio del film. Una casa, una terra, un “noi” in cui abitare per sentirsi al riparo dal mondo ostile e imbarbarito (forse troppo), che fa da metatesto a più riprese all’Apocalypto di Mel Gibson.
La parte peggiore de Il Primo Re – e qui veniamo al perché non ne siamo entusiasti – sta proprio nella parte narrativa.
La scrittura de Il Primo Re è fin troppo compassata, arrugginita nella contemplazione dell’innegabile perizia e autorialità della produzione. Da qui, un film che pende troppo sul lato estroso della forma, brutalmente raffinata, ma troppo autoreferenziale nei contenuti e poco seducente nello stile. Ciò determina una palpabile mancanza di identità: il viaggio è reso come un avventura banale e senza sussulti, le emozioni – forti – incapaci di essere imbrigliate all’interno di una narrazione stratificata e dall’ampio respiro. Il Primo Re alla luce di ciò diventa un modello elementare, un vademecum per i film che verranno del genere – se verranno.
Quindi, l’impressione è quella di aver visto un prodotto seminale, ma riuscito a metà. Un prodotto con una patina da cinema d’essai ma dalla scrittura dozzinale, questa sì arricchita di ottime interpretazioni, ma che si disperdono nella rarefazione contenutistica ed emozionale. Un prodigioso sforzo artistico spennellato su una trama elementare che sicuramente farà storcere il naso al grande pubblico, questo da sempre in cerca di emozioni forti, immediate, intrecci articolati e montaggi più sostenuti.
Insomma cosa voleva dirci Rovere? Cosa ci rimarrà del film? O forse, più probabilmente, voleva solo raccontarci una storia?
Enrico Ciccarelli