Fahrenheit 451 è senza dubbio il libro più noto dello scrittore statunitense Ray Bradbury. Pubblicato nel 1953, dal romanzo è stato tratto anche un celebre film diretto da François Truffaut. Fahrenheit 451 racconta la storia di Guy Montag, un pompiere molto particolare. Sì, perché le pagine del romanzo descrivono una società in cui gli incendi non si spengono, ma si appiccano. Montag vive in un mondo in cui i libri sono bollati come illegali e chi li possiede viene considerato un sovversivo: tal reato viene punito con il rogo dei libri posseduti e l’arresto. Ecco che l’enigmatico titolo non fa altro che far riferimento alla temperatura a cui dovrebbe bruciare la carta.
«Era una gioia appiccare il fuoco.»
L’incipit di Fahrenheit 451 delinea un personaggio ben inserito nel suo ruolo di incendiario, convinto della sua missione distruttrice, che prova una gioia malsana nell’appiccare il fuoco e vedere le cose annerite e diverse. E tutto ciò finché la sua vita non viene sconvolta da un incontro fortuito. Quando Montag incontra la diciassettenne Clarisse McClellan tutto ciò in cui ha sempre creduto crolla improvvisamente come un castello di sabbia.
La ragazza è diversa e le basta poco per comprendere che Montag non è come gli altri incendiari, Montag è un uomo che prova interesse per le cose, cosa non da poco in una società alienata e alienante. E allora gli fa una semplice domanda «Sei felice?» e con queste due parole riesce a stravolgere tutto ciò in cui credeva l’uomo.
La felicità è un concetto astratto e indefinibile. E come può Montag rispondere in modo diretto a quella domanda? Una domanda che nella sua immediatezza risulta insidiosa e accede una fiamma nella mente dell’incendiario: lui non avrebbe alcun valido motivo per non esserlo, felice, ma nel momento in cui si trova a dover dare una risposta, il sì non è possibile. Perché la sua esistenza è patinata e sotto quell’incredibile copertura non c’è niente.
Conduce una vita vuota, insieme alla moglie Mildred, occupata dalle sue cose futili, a conversare con le sue amiche superficiali o a guardare i suoi assurdi programmi televisivi. Mildred che è il simbolo più profondo del consumismo alienante, succube perfetta dello scenario sociale, che prende gli psicofarmaci, tenta di suicidarsi e nemmeno se lo ricorda.
E Montag non è felice con Mildred, non ricorda nemmeno come si sono conosciuti e forse il perché stanno insieme.
L’incontro con Clarisse e con un’anziana donna, che preferisce bruciare nella sua casa anziché abbandonare i libri, lo sconvolgono.
«Ci dev’essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare, per convincere una donna a restare in una casa che brucia. È evidente.»
E allora si convince di una cosa. Ci dev’essere qualcosa di impensabile in quei libri che a lui non è concesso sfogliare, qualche universo parallelo con cui lui non ha fatto i conti ed è lì, in quelle pagine. Forse un libro può dar scopo e ragion d’essere perfino alla sua di vita.
Ed è così che la fiamma si accende e Montag l’incendiario si trasforma in un sovversivo.
«Il buon Montag ha voluto volare vicino al sole ed ora che si è bruciato le ali maledette, vuol sapere perché se le è bruciate.»
Il riferimento va subito al mito di Icaro. Icaro è l’uomo coraggioso e curioso che, con tracotanza e superbia, vuole “toccare il cielo” ed è per questo che verrà punito. È il simbolo dell’eroismo di un anticonformista che non si lascia definire dai limiti.
La società descritta da Bradbury in Fahrenheit 451 non è altro che una dittatura che si manifesta con la negazione della cultura e il bisogno spasmodico di mettere i libri al rogo.
In una società in cui l’informazione non è libera, ma è tenuta rigidamente sotto controllo, all’uomo si chiede solo di essere parte di una massa. Di una massa amorfa e passiva, che subisce senza farsi domande, che vede senza guardare.
La massa controllata e controllabile, succube ad un altro programma e alienata all’ennesimo intrattenimento spicciolo. La televisione come unica divinità, da adorare e venerare, che tutto ciò che dice è legge e tutto ciò che mostra è vita.
E in Fahrenheit 451 i libri sono negati perché promuovono un tipo di cultura autonomo e perché spingono a farci domande. E chi si fa domande è pericoloso per una società che lo vorrebbe silenzioso e impassibile.
Montag finisce per sentirsi “ingabbiato”in quella società e non può recuperare il suo posto. Con l’aiuto di un vecchio professore troverà la forza di ribellarsi e fuggire verso un altro mondo, nella speranza di un futuro diverso.
«C’era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, nel più remoto passato, prima di Cristo, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci s’immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatto. Conosciamo bene tutte le innumerevoli assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l’altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi funebri e di saltarci sopra. Ad ogni generazione, raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda.»
Il fuoco descritto nella sua potenza purificatrice, oltre che distruttrice; e la fenice che di fuoco vive e di fuoco muore per poi rinascere sempre. L’uomo come una fenice, che si brucia e rinasce dalle sue ceneri, che incappa negli stessi errori con una consapevolezza ogni volta nuova. E ciò che permette il preservarsi di questa consapevolezza e ciò che ci permetterà un domani di vedere un errore e riconoscerlo come tale è la memoria storica: i libri sono l’immenso archivio storico del nostro passato e dal passato si deve partire per definire il futuro.
Perché nessun incendio può cancellare il passato finché ci sarà qualcuno a ricordare.
E allora pochi uomini in Fahrenheit 451 assumono sulle loro spalle il compito di custodi del passato. L’immagine potentissima di quegli stessi uomini che imparano a memoria un testo e lo trasmettono ai posteri, come novelli aedi che per la trasmissione utilizzano il primo medium: la voce. E se in principio la tradizione orale è diventata scritta, oggi è virtuale. E, a ben vedere, il medium è costantemente in evoluzione.
Sarebbe facile attribuire la crisi della carta stampata alla digitalizzazione, come se i tablet e gli smartphone, dotati di una propria intrinseca forza, si fossero imposti sulla società e sull’uomo. Ma basta poco per rendersi conto che la crisi in cui versiamo è di ben altra natura. Il problema non è Internet ma come leggiamo noi i contenuti su internet. Il problema è la mancanza di tempo e la distrazione.
Perché una buona lettura può essere fatta anche su di un tablet. E forse sì, si perde un po’ del piacere che l’odore di un libro può dare, e forse un buon libro rallenta i nostri tempi e ci fa prendere una tregua dal mondo caotico che continua a scorrerci intorno. Però un contenuto potente può avere la stessa forza anche su di un asettico schermo.
E allora basta demonizzare le nuove tecnologie, che ci rendono pigri, che ci alienano, che ci rendono succubi. Il problema siamo noi. Il mezzo non è niente, se non c’è qualcuno ad impugnarlo. E la televisione possiamo sempre spegnerla, e un libro possiamo sempre comprarlo. Ma soprattutto leggerlo. Possiamo scegliere di non essere più gli ennesimi consumatori distratti della cultura del frammento, perché quando non c’è tempo e quando non c’è voglia, basta leggere un titolo per credere di conoscere il contenuto di un articolo. Basta leggere un riassunto per credere di conoscere un classico.
«Immagina tu stesso: l’uomo del diciannovesimo secolo con i suoi cavalli, i suoi cani, i suoi carri, carrozze, dal moto generale lento. Poi, nel ventesimo secolo, il moto si accelera notevolmente. I libri si fanno più brevi e sbrigativi. Riassunti. Scelte. Digesti. Giornali tutti titoli e notizie, le notizie praticamente riassunte nei titoli. Tutto viene ridotto a pastone, a trovata sensazionale, a finale esplosivo.»
E, con queste parole, Fahrenheit 451 sta davvero descrivendo solo una società dispotica?
Vanessa Vaia