Leggenda vuole che compitando o ascoltando la parola ‘filologia’ due persone su tre storcano il naso e sarà per lo stesso motivo che nessun bambino sogna mai, spinto e sostenuto dai genitori, di diventare un filologo di fama internazionale, né di basso profilo, a dirla tutta. Ma proviamo a dissolvere le ritrosie e la diffidenza nei confronti di questa misconosciuta professione, procedendo per gradi.
L’etimo greco ci conduce all’amore del discorso (comp. di ϕιλο– «filo-» e λόγος «discorso») ed — ieri come oggi — la filologia ha espresso tale amore nello studio dei testi e della loro trasmissione, legandosi strenuamente all’ecdotica (da ἔκδοσις «edizione» ), ovvero la critica del testo, la cui finalità consiste nell’approntare l’edizione critica, restituire quindi il testo nella forma quanto più possibile vicina a quella voluta dall’autore allorché pubblicò la sua opera.
Il filologo, dunque, opera su prodotti di epoca classica o moderna, con diverse procedure, ma sempre al fine di individuare e divulgare il testo che ha in esame nella sua forma corretta, senza le deformazioni che, volontariamente o no, si stratificano su di esso.
Il filologo è un uomo che dubita costantemente, è colui che di fronte ad un verso celebratissimo dello stilnovismo quale “tanto gentile e tanto onesta pare\ la donna mia, quand’ella altrui saluta” si chiede se sia lecito, come faremmo oggi — stando ad una interpretazione moderna dei versi — dubitare dell’onorabilità della donna, o se piuttosto, come è ormai invalso grazie all’illustre Contini, bisogna affermare che il verbo ha un’implicazione ontologica, ed indica “appare evidentemente”[1], quindi è tanto gentile e tanto onesta, senza perplessità.
Il filologo è un uomo paziente, è colui che studia molti anni, anche una vita intera, per poter penetrare tutti i segreti di un testo, e capire le intenzioni e gli atti di un autore, del tempo che ha abitato e che ha potuto condizionarlo, spingendolo a castrare se stesso, producendo un’opera mutila; è il caso del pamphlet antifascista Eros e Priapo di C. E. Gadda. Scritto nel 1944\45, ma pubblicato nel ’67 in una forma edulcorata, priva della violenza espressiva e della carica manifestamente spregiativa del testo primitivo, fortunosamente venuto alla luce grazie ad un manoscritto autografo scoperto nel 2010.
Ancora, il filologo è colui che può scardinare assunzioni millenarie e di cui si temono gli atti, tanto da aver spinto la Chiesa ad emanare diverse encicliche tese a ridimensionare l’attività di studio sui testi sacri.
Possiamo, quindi, ancora dubitare della centralità e dell’urgenza di questa professione? Se sì, ricordiamoci di quanto siamo oggi costantemente immersi nell’informazione; un’orda di testi ci piomba sotto gli occhi ogni istante in un’epoca del self-publishing e di trionfo dei social network, sicché concludo affidandomi e affidandovi alle parole di un grande filologo, Alberto Varvaro:
“[…] Importante è che ci si renda conto che un testo, qualsiasi testo, chiude in se un problema interpretativo e che, prima ancora, esso va stabilito nella sua forma corretta. La coscienza di questi due problemi è essenziale per un buon funzionamento della società umana, che è fondata appunto sulla trasmissione di testi, ed è questo, a mio parere, che giustifica l’esistenza stessa della filologia e la sua rilevanza culturale e sociale.”[2]
Insomma, chissà cosa succederebbe se raccontassimo ai bimbi che il filologo, tutto sommato, è un inconsueto supereroe, perché è l’alfiere della verità.
Paola Guadagno
[1] Contini G., Esercizio di interpretazione sopra un sonetto di Dante, in «Un’idea di Dante», Torino, Einaudi, 2001, pp. 21-31.
[2] Varvaro A., Prima lezione di filologia, Roma- Bari, Laterza, 2012, p. 144.