Con la caduta dell’impero romano, la tradizione letteraria si divide in due rami: in Oriente prolifera l’eredità dei grandi romanzi greci; in Occidente avranno invece vita le riscritture in volgare e le rivisitazioni delle opere latine, insieme alla nascita della fiorente letteratura di ambito feudale e cortese.
Il romanzo medievale nasce quindi sotto l’ala dell’antichità classica, dal fascino da sempre emanato dai grandi poemi epici, dalle tragedie greche e latine e dalle opere ovidiane. Gli ingredienti che lo compongono guardano però anche alla cultura nordica delle favolose storie arturiane, mettendo in scena un dialogo che diverrà la base del “Rinascimento del XII secolo”, così come era stato definito dal critico Charles H. Haskins.
La prima materia antica utilizzata per una mise en roman di cui abbiamo testimonianza è quella di Alessandro Magno, personaggio storico intriso di leggenda, che ancora oggi continua ad affascinare il pubblico di lettori e di telespettatori.
I primi romanzi medievali erano concepiti in versi e il primo manoscritto dell’Alexandre (si parla di un frammento di 105 versi risalenti al 1130 ca.), dell’autore Alberic de Pisançon, era scritto in ottosillabi (versi di otto sillabe). L’opera ebbe una fortuna tale da diventare l’archetipo di nuove mises en roman incentrate sulle gesta del conquistatore macedone. L’ultima che ci è pervenuta è il Roman d’Alexandre (1180 – 1190 ca.) di Alexandre de Bernay, un’opera portentosa scritta in lasse di dodecasillabi (versi di dodici sillabe): l’autore aveva infatti bisogno di scalfire le catene di uno schema metrico troppo opprimente per dare alla sua opere un respiro molto più ampio. Questa scelta stilistica è il primo sintomo del cambiamento che è avvenuto in ambito letterario nel giro di cinquant’anni, nel nord della Francia.
Analizzare questo materiale ci permette di comprendere l’evoluzione del gusto e della società medievale del XII secolo. Il frammento pervenutoci da Alberic de Pisançon argomenta solo la nascita e l’educazione di Alessandro, (l’enfances dell’eroe) ripresa dalle ultime pagine di un Curzio Rufo latino della Biblioteca Laurenziana di Firenze. Alberic plasma questa materia classica sulle nuove impalcature strutturali, ponendo la sua opera a metà strada tra una chanson de geste (le canzoni che narravano le gesta dei paladini di Carlo Magno) e un romanzo cortese. Già nell’incipit, inoltre, si può notare l’adesione alla retorica medievale, concentrata sull’uso dell’iperbole.
Non esiste, infatti, e non è mai esistito, un uomo forte e valoroso quanto il suo sovrano, Alessandro Magno. Nessuno è mai riuscito a conquistare così tante terre o è riuscito a dimostrare il suo coraggio e il suo valore in battaglia. La figura dell’eroe medievale è subito posta al di sopra di un altare, imponente e irraggiungibile e a stabilire questa sua supremazia non è il semplice autore, ma le pergamene, le testimonianze storiche che Alberic dichiara di aver consultato per riportare l’esatta verità dei fatti.
Secoli dopo, Alexandre de Barney rende evidente come, nel passaggio dell’antichità pagana al medioevo cristiano, la leggenda di Alessandro diluisca gli elementi mitologici, nasconda o cancelli i fatti più torbidi, smorzi l’atmosfera di tragica fatalità incombente sul giovane eroe: il tutto miscelato ad un’estetica dell’arte e della bellezza cortese, qui legata anche al gusto dell’esotico tipicamente ellenistico. Nel Roman d’ Alexandre Alexandre de Bernay non si rifà infatti ad una tradizione di storici e di poligrafi greci, ma a delle fonti del tutto libresche. Le informazioni utilizzate sono quindi un mosaico, frutto delle letture di: le Res gestae Alexandri Magni di Quinto Curzio Rufo (40 ca d.C.), le Res gestae Alexandri Macedonis di Giulio Valerio (320-330 ca.), la traduzione che l’Arciprete Leone, duca di Napoli, compie nel 952 del Romanzo di Alessandro di Pseudo-Callistene. A questi si uniscono vari rimaneggiamenti e fantasiose gallerie medievali riguardanti strane creature e ambientazioni.
Questi territori sconfinati e sconosciuti all’occidente (L’Egitto, L’India, la Persia) così delineati sono destinati, nel romanzo, ad entrare in paragone con le grandi imprese e le divine capacità dell’eroe medievale. Da un lato, l’enciclopedia di un Oriente così variegato spaventa il pubblico, che proietta nella sua immaginazione un teatro del mostruoso. Ma a muoversi in questo contesto è un eroe a cui non basta mai l’avventura, capace di conquistare qualsiasi terra. Alessandro non è infatti un viaggiatore sospinto dal fato, ma un viaggiatore per sua scelta. Si mostra come completamente indifferente nei riguardi della conquista, ma sempre più invaso dalla curiositas, prigioniero dei modelli classici (gli eroi antichi Achille, Ulisse, Ercole) e quindi desideroso di liberarsene, per cercare una propria fervente personalità. Proprio come per i cavalieri arturiani, il viaggio di Alessandro diventa quindi un’esperienza di libertà e una conquista di autonomia. Ciò che l’eroe classico temeva (il diverso e l’inatteso) è invece ricercato dai nuovi cavalieri medievali che sono ritratti come dei veri guerrieri professionisti, eroi prestati al mondo che devono cercare di concretizzare le proprie idee morali. I romanzi cavallereschi sono ambientati in un mondo imperfetto, proprio come quello dei romanzi greci e dei poemi epici, ma i protagonisti hanno il compito di migliorarlo, di partire e andare alla ricerca dell’avventura, ponendosi incessantemente al servizio della giustizia. A tal proposito il critico letterario Thomas Pavel definirà sia i romanzi greci che quelli medievali come opere che non descrivono il mondo in modo realistico, ma come un insieme di ideali. Il cavaliere deve difendere infatti tutti coloro che sono colpiti dall’ingiustizia, ruotando continuamente intorno al tema centrale di queste opere: la vulnerabilità dell’ordine sociale che gli eroi devono cercare di ripristinare, tutti i loro tentativi rientrano in questo modo nello scenario dell’avventura.
Il filologo F. Zabon ha fatto notare che nel quadro della teologia apofatica, la figura del mostro si dimostra come quella più accattivante, i paragrafi ad esso dedicati tendono verso l’espressione del diabolico, scivolando quindi verso un compiacimento fantastico e una curiosità fine a se stessa. Alessandro si muove tra queste deformità, nel suo viaggio verso i confini del mondo e questo Oriente lo assorbe e lo ridisegna. Il pubblico medievale, fornito di tali strumenti, interpretava dunque la figura di Alessandro come quella di un eroe che, per la sua curiositas, pecca di hybris, di tracotanza: merita una punizione perché ha sfidato Dio. Il suo nome è spesso accompagnato dall’avverbio folement, temerariamente, senza misura, che qualifica il suo continuo errare e la sua sete di conoscenza. Tutto il mondo conosciuto non gli basta, è troppo piccolo e, secondo il suo punto di vista, qualsiasi uomo dotato di un minimo di coraggio e di un pizzico di audacia, sarebbe capace di conquistarlo tutto e assoggettarlo.
Alessia Sicuro