Leggere il contratto di governo sottoscritto da Lega e Movimento 5 Stelle è un’esperienza ai limiti del trascendentale. Non riesco a credere che gli interi staff delle due principali forze politiche italiane abbiano lavorato per oltre un mese a quelle cinquantotto pagine di banalità, luoghi comuni e temini da compito in classe. Avrei potuto scrivere di meglio, da solo, in una settimana.
Eppure, prendersi cura di un paese profondamente segnato da squilibri sistemici, divari geografici e generazionali, dissesti finanziari e carenze democratiche avrebbe meritato attenzioni ben maggiori di un accrocchio di paginette redatte in un politichese stentato e rabberciato. Soprattutto, il documento firmato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, tra una sfilza di sogni nel cassetto e qualche digressione nazionalistica, fallisce completamente il tentativo di offrire una visione d’insieme che sia allo stesso tempo risposta e proposta nei confronti dei problemi più tangibili e concreti della realtà quotidiana, a cominciare dalla lotta alla mafia.
Quelle vite ridotte a otto righe
Che qualcosa non andasse proprio per il verso giusto l’avevo intuito dal fatto che ben due pagine fossero riservate al Ministero per le Disabilità e appena otto righe, invece, al paragrafetto sul contrasto alle mafie.
“Bisogna potenziare gli strumenti normativi e amministrativi volti al contrasto della criminalità organizzata, con particolare riferimento alle condotte caratterizzate dallo scambio politico mafioso. È necessario inoltre implementare gli strumenti di aggressione ai patrimoni di provenienza illecita, attraverso una seria politica di sequestro e confisca dei beni e di gestione dei medesimi, finalizzata alla salvaguardia e alla tutela delle aziende e dei lavoratori prima dell’assegnazione nel periodo di amministrazione giudiziaria”.
Questo è tutto: otto righe. In otto righe il Governo del cambiamento ha spremuto decenni di storie e di impegno; otto righe per Pio La Torre, che nel 1982 pagò con la vita il suo lavoro all’introduzione del reato di associazione mafiosa, e per Don Luigi Ciotti, che contribuì nel 1996 alla legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati. In otto righe Peppino Impastato, Falcone e Borsellino, in otto righe Giancarlo Siani e Don Pino Puglisi, in otto righe l’anima dissacrata dai cancri mafiosi che divorano l’Italia da meridione a settentrione, i corpi di migliaia di uomini e donne, le schiene fieramente dritte oppure piegate nel sangue, la memoria e l’offesa, lo sgomento e il silenzio.
La pacchia è di chi non pensa prima di parlare
Ecco, appunto, il silenzio: quello che avrebbe fatto bene a preferire Matteo Salvini prima di sentenziare che “per i clandestini è finita la pacchia”. La dimostrazione ennesima di una disumanità che non conosce pudore, la sua, ma anche l’anteprima di quella che sarà la conduzione del Ministero dell’Interno da qui in avanti, con il leader della Lega impiantato al Viminale: lui, che in quel palazzo è l’unico clandestino che andrebbe espulso.
Ma c’è dell’altro. Perché all’odio razziale e ai sentimenti xenofobi eravamo già abituati. La Lega ha fondato la sua intera esistenza politica e le sue fortune elettorali sulla paura viscerale del diverso – terroni colerosi o clandestini parassiti, a seconda dei casi.
Fa specie, piuttosto, che la retorica gialloverde non sia stata in grado finora di proporre una narrazione differente, che si sia ancorata al cliché dell’immigrato rubalavoro e stupratore, senza offrire un diversivo da richiamare, all’occorrenza, come soccorso al consenso quando sarà palese a tutti che espellere una manciata di persone con la pelle nera non risolverà affatto i problemi dell’Italia. A chi verrà data la colpa, a quel punto?
Ma i clandestini non votano, i mafiosi sì
Non ai mafiosi, a quanto pare. Per loro, la pacchia andrà avanti ad oltranza. Perché a differenza dei clandestini, la mafia smuove un’ingente quantità di voti, e questo è un triste dato di fatto che difficilmente il Governo del cambiamento potrà cambiare.
Nel contratto, a essere sinceri, sono contenuti anche passaggi sul contrasto alla corruzione e al gioco d’azzardo, che pure della mafia sono una fonte di guadagno e potere. Ma l’impressione che se ne ottiene, a lettura ultimata, è quella di provvedimenti-spot che sono sì a tratti condivisibili, e potranno perfino realizzare qualche risultato, ma che mancano della visione d’insieme di cui dicevamo prima.
Al proposito, un segnale molto più netto e coraggioso sarebbe arrivato con l’istituzione di un Ministero dedicato appositamente alla lotta alle mafie. Ma è evidente che tra le priorità di Lega e Movimento 5 Stelle c’è altro: ad esempio, giocare al tiro a bersaglio coi ladri e tornare indietro di un paio di millenni sulla concezione della famiglia.
Non avrai altra mafia all’infuori di me
Grandi assenti nel dibattito restano, ad esempio, le ecomafie, le droghe leggere e la prostituzione, che nella lista dei desideri pure avrebbero meritato il loro posticino. Ma a mancare, come già detto, è la prospettiva politica, la volontà precisa di fare della lotta alla mafia azione di governo. E allora tanto vale rassegnarsi: quando Salvini urla “Prima gli italiani!”, è evidente che intende proprio tutti tutti gli italiani, mafiosi compresi.
Difficile aspettarsi di più, da un partito che si trascina nell’armadio gli scheletri di rapporti con la ‘ndrangheta mai del tutto chiariti negli anni, e riesplosi prepotentemente in questi giorni di passione in Calabria seguiti all’assassinio di Soumayla Sacko. Difficile pensare che da quella coalizione lì, con quel partito lì, quello di Dell’Utri, Cosentino e il grande leader occulto che per motivi di privacy chiameremo Silvio B., potesse venir fuori un approccio differente, più rigoroso e metodologico, per arginare il fenomeno mafioso.
Dovremo accontentarci, piuttosto, di servire da bravi sudditi la Patria e il Vangelo. Quello su cui Salvini ha giurato con fretta maldestra, dimenticando forse per un attimo il vero Dio che sarà costretto a servire: il Potere.
Buona domenica, lettori cari.
Emanuele Tanzilli
@ematanzilli