Il brainch della domenica: Ma il mondo ha davvero bisogno della nostra opinione?
Cari lettori,
per comprendere la solennità di questo momento dobbiamo predisporci ad un’approfondita analisi delle dinamiche sociologiche, pedagogiche, psicologiche, e varie altre cose che finiscono in -ogiche che non possiamo elencare tutte e dalle quali dipendono le sorti del mondo.
È necessario avviare la riflessione di questa settimana con una considerazione che forse non piacerà a tutti. Parlo dei nostri modelli educativi, dei canoni sociali, di quell’insieme di regole, abitudini e convenzioni che costruiscono il nostro contesto culturale. Il fatto è che nasciamo, cresciamo e veniamo istruiti a pensare che esistano giusto e sbagliato, buono e cattivo, verità e menzogna, come realtà opposte e inconciliabili fra loro.
Siamo mossi da una meccanica istintiva in grado di discernere soltanto fra due categorie universali, ragionando come quei manichei che perfino Sant’Agostino detestava e irrideva nelle sue Confessioni. Bene e Male, Bianco e Nero; in mezzo, un abisso inconoscibile di nulla. E naturalmente, trascorriamo la gran parte della nostra esistenza a cercare di stare dalla parte della ragione (come alludeva sardonicamente Brecht). Anzi, facciamo della ragione la nostra ragione di vita, al punto da sentire la necessità di ribadire continuamente, agli altri e a noi stessi, la nostra Unica Verità Assoluta.
Gli esempi per suffragare questa tesi sono così numerosi che ci basterà ripercorrere gli ultimi giorni per renderci conto di quanto tale modo di fare influenzi i nostri comportamenti al punto da condizionare le nostre stesse sorti.
Esempio numero 1: la tensione fra Stati Uniti e Korea del Nord non accenna a diminuire, anzi si aggrava ulteriormente sulla scorta degli ultimi test nucleari eseguiti nella penisola coreana, qualcosa in grado di provocare un terremoto di magnitudo 6.3 e dieci volte più potente della bomba sganciata su Hiroshima in quell’infausto agosto del 1945.
Cosa accade? Mentre il conflitto armato è alle porte, ciò che appare veramente indispensabile è la condanna dell’uno o dell’altro: come se la geopolitica globale fosse determinata dai trend degli hashtag con le accuse di imperialismo nei confronti di Trump o di dittatura verso Kim Jong Un.
Ma procedere verso una nuova proliferazione nucleare o addirittura una guerra atomica che coinvolga il mondo intero è una semplice nota di folklore, fintantoché si insulta a dovere il nemico su facebook.
Ci sono stati poi i vergognosi episodi di stupro. Prima a Rimini, dove una ragazza polacca è stata oggetto di violenza da parte di tre africani. Poi a Firenze, dove due studentesse americane sono state aggredite sessualmente da due carabinieri.
Ora, se avete notato una serie di inutili aggettivi nella frase precedente, avete colto il punto. Se invece siete fra quelli che hanno sentito l’esigenza di rimarcare la nazionalità dei colpevoli, come si trattasse di una discriminante morale, allora, lasciatemelo dire, c’è qualcosa che non va.
Il clamore mediatico di questo o quel caso, la sottolineatura morbosa di dettagli irrilevanti è un futile pretesto per muovere la più classica delle guerre di opinione: come se le vittime fossero più o meno contente di aver subito violenza in base al luogo di nascita dell’aggressore, come se le conseguenze perverse e drammatiche di un sistema patriarcale si applicassero soltanto ai neri, perché extracomunitari, o ai carabinieri, perché italiani.
Riusciamo a litigare su tutto: se i vaccini siano una sacrosanta conquista della scienza o un’imposizione farmaceutica per condurci verso il Nuovo Ordine Mondiale – mentre si muore di malaria e di morbillo, mentre si muore dimenticati sulle barelle di un ospedale o abbandonati per ore nella sala d’attesa di un pronto soccorso.
Riusciamo a discutere persino sulle pubblicità, chiedendoci quanto sia giusto mostrare un asteroide che colpisce una persona, eppure senza mai interrogarci sulle storture imposte da un modello consumistico che si alimenta di apparenze a discapito delle nostre condizioni di lavoro, di salute, di pensiero.
È questo un atteggiamento che cela e tradisce una fondamentale insicurezza. Siamo talmente spaventati dall’idea di non essere identificati in qualche modo dall’affannarci a prendere una posizione non appena sembri opportuno farlo, come a cercare costantemente un proprio spazio nel mondo, come ad affermare l’esistenza attraverso l’opinione: mi esprimo, quindi sono.
Un modello comportamentale consolidato e quasi atteso, e che anche quando animato da princìpi morali, ideologici o etici, non ha altro effetto che creare una situazione di conflitto permanente, un dualismo perpetuo tra chi sta di qua e di là della linea; ma la linea, chi l’ha disegnata?
La linea esiste soltanto nella nostra mente. Sarà che ci annoia la banalità del male, sarà che il web ci fornisce l’illusione di poter davvero influenzare il mondo a suon di like e condivisioni – realizzando così la più perfetta forma di controllo, quella del pensiero -, ma la minimizzazione dell’individualità a mera ostentazione della propria opinione è un processo che impoverisce anziché arricchire, perché piuttosto che prediligere il confronto si agita e percuote esclusivamente sul terreno dello scontro.
E piuttosto che preoccuparci di separare vincitori e vinti, potremmo provare ad alzare un po’ lo sguardo e prendere consapevolezza della rovina che avanza sulle macerie della nostra opinione. Ma del resto, ce ne sono molti che preferirebbero sprofondare all’inferno per l’eternità piuttosto che ammettere una sola volta di avere torto.
Buona domenica, lettori cari.
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli
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