La notte dell’11 gennaio del 1999 il mondo della musica perdeva Fabrizio De Andrè, uno dei più grandi cantautori della storia italiana.
Personalità amata e odiata, sempre controcorrente “in direzione ostinata e contraria”, Faber conta nella sua carriera su una grande produzione artistica e numerose collaborazioni musicali con altri giganti del cantautorato italiano come Francesco de Gregori e Ivano Fossati.
De Andrè era nato 58 anni prima a Genova: proprio la sua gente e il suo dialetto sono i protagonisti delle sue canzoni. Era il portavoce degli umili, degli emarginati e degli esclusi; il tema di base di tutte le sue canzoni è la libertà come valore assoluto.
«Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile»
L’esordio fu nel 1961 ma è nel 1964 che raggiunge il grande pubblico, quando incide La canzone di Marinella. Il primo album è del 1967, Volume I, che contiene pezzi storici come Preghiera in Gennaio, Bocca di Rosa e Via del Campo. De Andrè si nutre di lettura, le sue canzoni contengono quasi sempre riferimenti della letteratura classica o moderna: Non al denaro non all’amore né al cielo, album del 1971, è tutto ispirato al capolavoro di Edgar Lee Masters “Antologia di Spoon River”:
«Spoon River l’ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.»
Per ogni canzone è possibile rintracciare una delle tante storie contenute nel libro. La traduzione dall’inglese era stata fatta da Fernanda Pivano, grande amica e sostenitrice del cantante genovese:
«Era superproibito quel libro in Italia. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […] Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt’altra tendenza. È successo tra il ’37 e il ’41: quando questo ha significato coraggio.»
Negli anni settanta il successo di Fabrizio De Andrè continua a crescere: dopo Non al denaro non all’amore né al cielo, esce Storia di un impiegato nel 1973, in cui tutte le canzoni sono collegate da un filo narrativo: un impiegato dopo aver ascoltato una canzone francese del Sessantotto (Canzone del Maggio) decide di ribellarsi, prepara un attentato (nella canzone Il bombarolo), viene incarcerato e si rivolge alla sua donna in Verranno a chiederti del nostro amore, uno dei pezzi più toccanti del disco che termina con Nella mia ora di libertà.
Il 1975 è l’anno di un’importante collaborazione artistica, quella con Francesco De Gregori, che darà alla luce Volume VIII:
«..mi aveva proposto di lavorare insieme dopo avermi conosciuto in un locale di Roma, il Folkstudio.
Passammo quasi un mese da soli nella sua bellissima casa in Sardegna, davanti ad una spiaggia meravigliosa dove peraltro credo che non mettemmo mai piede: in quel periodo avevamo tutti e due delle storie sentimentali assai burrascose ed era più o meno inverno. Fabrizio beveva e fumava tantissimo e io gli stavo dietro con un certo successo. Giocavamo a scacchi, a poker in due: ogni tanto prendevo il suo motorino e me ne andavo in giro per chilometri. Al mio ritorno spesso lo trovavo appena alzato che girava per casa con la sigaretta e il bicchiere e la chitarra in mano e che aveva buttato giù degli appunti, degli accordi. Era uno strano modo di lavorare il nostro: non ci siamo mai messi seduti a dire “Adesso scriviamo questa canzone”. Semplicemente integravamo e correggevamo l’uno gli appunti dell’altro, certe volte senza nemmeno parlarne, senza nemmeno incontrarci magari, perché lui dormiva di giorno e lavorava di notte e io viceversa. Fabrizio era un uomo generoso e bellicoso, facile da amare e difficilissimo da andarci d’accordo. Se non avessi conosciuto le sue canzoni, non avrei mai cominciato a scrivere le mie.»
Oggi, a 17 anni dalla sua scomparsa, il ricordo di Faber non è nemmeno sbiadito.
Maria Pisani