Risale a novembre dello scorso anno l’ultima rappresaglia dell’esercito birmano contro la minoranza etnica dei Rohingya, ad oggi riconosciuta come una delle popolazioni più perseguitate al mondo secondo la ONG Human Right Watch (HRW). Più di 80 persone sono state uccise dall’esercito, con l’unica giustificazione di rappresentare un pericolo per il paese, in quanto possibili membri di cellule terroriste islamiche.

Ma quello di novembre è solo l’ultimo di una serie di soprusi e prevaricazioni da parte dell’esercito birmano verso la minoranza Rohingya.

Secondo HRW l’esercito avrebbe bruciato più di 1500 abitazioni dall’inizio della campagna militare nella regione di Rakhine, dove vivono più di un milione di Rohingya, che soffrono una discriminazione crescente almeno dal 2012, in seguito alla repressione coordinata dall’esercito birmano che causò la morte di almeno 160 persone e lasciò più di 120000 persone confinate in 67 campi profughi, di fatto delle carceri-ghetto a cielo aperto, segnalate più volte al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per violazione dei diritti umani.

Lo Stato birmano dal 1982 ad oggi non riconosce la cittadinanza ai Rohingya e li considera di fatto immigrati illegali del vicino Bangladesh, che a sua volta nega la cittadinanza a questa minoranza. Tra le diverse restrizioni imposte ai Rohingya vi sono la privazione della libertà di movimento, l’esclusione dal voto e da qualsiasi servizio statale.

Il gruppo etnico dei Rohingya è costituito più o meno da un milione di persone (dei 54 milioni della popolazione birmana) e per quanto sia, date le condizioni in cui versa, “apolide”, risiede nella regione di Rakhine all’incirca dal VII secolo, periodo in cui vi si insediarono i loro antenati arabi per ragioni legate perlopiù al commercio.

Nell’occhio del ciclone geopolitico vi è Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, accusata da più fronti di lassismo e mancata presa di posizione rispetto a un conflitto che sta assumendo sempre più le forme di un genocidio, ad opera del governo Htin Kyaw, emanazione della Lega Nazionale per la Democrazia, la cui leader e fondatrice è Suu Kyi stessa.

Lo scorso dicembre undici premi Nobel per la pace, insieme a un’altra decina di attivisti, tra cui compaiono i nomi di Emma Bonino, Romano Prodi ed economisti come l’inventore bengalese del microcredito Muhammad Yunus (Nobel per la Pace nel 2006), hanno sottoscritto un appello rivolto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU affinché vengano presi provvedimenti rispetto agli atti di violenza perpetrati dallo stato birmano nei confronti dei Rohingya. Aung San Suu Kyi viene citata direttamente in causa poiché, sebbene non sia formalmente alla guida del paese, detiene un ruolo centrale all’interno del governo e del partito.

Al momento la situazione rimane tuttavia in stallo, da parte della Suu Kyi nessuna dichiarazione sulle accuse dei “colleghi” del Nobel, né parole di condanna per le continue violazioni dei diritti umani che coinvolgono i Rohingya.

Sembrava intravedersi la possibilità di un risveglio di coscienza della Birmania il 2 gennaio di quest’anno, quando in seguito all’emanazione di un video su YouTube, in cui si vedevano chiaramente violenze brutali e gratuite di alcuni soldati contro dei passanti Rohingya, il governo aveva istituito una commissione d’inchiesta speciale per rintracciare i colpevoli. Purtroppo, quella che poteva sembrare una presa di responsabilità del governo, si è rivelato l’ennesimo tentativo di minimizzare e negare qualsiasi abuso da parte del governo alla popolazione Rohingya.

Il silenzio della Suu Kyi e del suo governo non riesce ad ammutolire i lamenti e le grida di migliaia di profughi Rohingya che tentano di sfuggire alle violenze dei militari birmani, cercando rifugio in Bangladesh. Secondo le stime dell’agenzia ONU per le migrazioni, negli ultimi mesi 34.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraversando le acque del fiume Naf.

Risale a pochi giorni fa la terribile immagine diffusa dalla CNN di un bimbo di pochi mesi morto annegato nelle rive del fiume Naf, insieme alla mamma, al fratello e allo zio, nel disperato tentativo di fuggire da uno stato “democratico”, in cui le forze militari sembrano detenere ancora molto potere, tanto da poter esercitare atroci violenze senza doversi occupare delle conseguenze.

È importante sottolineare come l’astio verso questo popolo sia rinvigorito da campagne razziste condite dal fondamentalismo religioso buddhista, che non fanno che peggiorare il clima di odio e repressione già presente all’interno del paese.

L’appello presentato all’ONU da attivisti e premi Nobel sembra l’estremo tentativo della società civile di rendere quantomeno noto un terribile conflitto di cui il mondo sembra non essere a conoscenza, affinché in ambito internazionale si comincino a prendere adeguati provvedimenti.

Sara Bortolati

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