Un reportage pubblicato dal Guardian il 4 aprile scorso fa luce sulle barbare pratiche messe in atto dalla migra messicana al fine di arginare il sempre più ingente flusso umano che attraversa il paese da sud a nord dirigendosi verso la frontiera. Il giornale britannico ha, in particolare, esposto il caso di tre giovani provenienti da zone rurali ed estremamente povere del Chiapas, i quali rappresentano le ennesime vittime di un sistema di detenzione migratorio facente capo al cosiddetto Southern Border Plan, dedicato alla specifica salvaguardia degli interessi delle agenzie migratorie statunitensi.
La storia narrata dal Guardian è quella di Amy, Esther e Alberto Juárez, tre fratelli chiapanecos provenienti dalla comunità indigena Tzeltal di Ocosingo, i quali hanno lasciato il proprio pueblo nel settembre scorso per dirigersi verso nord. Alberto, 18 anni, aveva già intrapreso lo stesso viaggio diversi mesi prima, finendo col raccogliere zucche, cocomeri e pomodori nei campi dello stato settentrionale di Sonora. Qui, la stagione gli aveva fruttato 200 pesos al giorno (poco meno di 10 euro), mentre la media percepita da un bracciante in Chiapas ammonta a circa 70 pesos (3.45 euro).
Incoraggiati dai racconti del ragazzo, le sorelle ed il fidanzato di una delle due, Fernando, hanno così deciso di lasciare il Chiapas.
Il viaggio dei quattro si è, tuttavia, amaramente concluso a circa metà strada, nello stato di Querétaro (circa 200 chilometri a nord di Città del Messico), quando il bus su cui viaggiavano è stato fermato ad un posto di blocco di agenti dell’Instituto Nacional de Migración (INM).
In quattro hanno, quindi, trascinato i ragazzi in un centro di detenzione migratorio accusandoli di possedere documenti falsi ed essere in realtà immigrati irregolari guatemaltechi. Fernando, 27 anni e il più anziano dei quattro, è stato rilasciato in quanto riconosciuto come messicano ma con l’accusa di essere un trafficante di esseri umani.
Ai tre, la cui lingua madre è quella tzeltal, è stato intimato di firmare dei documenti nonostante le evidenti difficoltà ad esprimersi in spagnolo. Alberto ha raccontato ad un traduttore del Guardian di essere stato colpito da diverse scariche elettriche, secondo veri e propri metodi di tortura, al fine di costringerlo ad apporre una firma con cui avrebbe “ammesso” di essere guatemalteco.
«Continuavano a sostenere che venissimo dal Guatemala, e io continuavo a dirgli che venivamo dal Chiapas, ma questo li rendeva solo più furiosi. Alberto non riusciva a smettere di tremare, stavamo tutti piangendo. Come potevamo tornare a casa in Chiapas quando non sappiamo neanche dove sia il Guatemala?»: la testimonianza di Esther, 15 anni.
Il calvario dei tre giovani è durato otto giorni, fino all’arrivo degli avvocati dell’IMUMI (Instituto para las Mujeres en la Migración) che si sono impegnati a finalizzare le procedure di rilascio. Gretchen Kuhener, direttrice dell’organizzazione, ha personalmente lanciato l’azione legale a favore dei fratelli Juárez, denunciando pubblicamente l’incostituzionalità delle misure adottate dall’INM, specie in relazione al fatto che, per legge, i cittadini messicani godono del diritto di libera circolazione entro i confini della federazione senza l’obbligo di avere i documenti sempre con sé; documenti che gli agenti avevano, per altro, minacciato di non restituire a meno che i tre non avessero pagato una tangente di 200 pesos.
Il caso, purtroppo, non resta isolato. L’elevato numero di giovani messicani, soprattutto di estrazione indigena, forzatamente detenuti, minacciati e spesso torturati dagli agenti dell’immigrazione è un problema di centralissima rilevanza presso gli uffici della CNDH (Commissione Nazionale dei Diritti Umani messicana), la quale ha documentato almeno 15 casi riportanti il coinvolgimento di 22 agenti dell’INM in azioni di violazione dei diritti dei cittadini messicani. Non stupisce che, a capo dell’INM dal 2013, ci sia la controversa figura di Ardelio Vargas Fosado, l’allora capo delle forze armate che repressero la protesta campesina di San Salvador Atenco nel 2006. Carolina Jiménez, numero due dell’osservatorio sulle Americhe di Amnesty International, ha rilasciato al Guardian la seguente dichiarazione:
«Abbiamo documentato un modello veramente inquietante di gravissime violazioni dei diritti umani contro i migranti in viaggio attraverso il Messico. Ma vedere funzionari dell’immigrazione coinvolti in torture contro cittadini messicani per farli ‘confessare’ di essere migranti porta questa situazione già preoccupante ad un livello ancora più sinistro».
Questa strategia della menzogna attuata dagli organi di stato messicani fa parte di un’orchestra governativa transnazionale direttamente rivolta a stroncare violentemente il flusso di persone che abbandona contesti di povertà estrema per cercare fortuna al nord. Beffardamente, infatti, il consolato del Guatemala in Messico aveva addirittura rilasciato dei documenti a conferma del fatto che i fratelli Juárez fossero cittadini guatemaltechi. Il reportage del Guardian parla inoltre di un ambiguo coinvolgimento degli Stati Uniti, i quali avrebbero stanziato alla migra messicana almeno centomila dollari in addestramento, nuovi equipaggiamenti e unità cinofile, senza inserire alcuna clausola riguardante i diritti umani negli accordi.
Cristiano Capuano