Non-depilazione femminile: la decostruzione di una norma sociale
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Interrogarsi, mettere in discussione, capire e sperimentare: sono queste le basi di una scelta consapevole e libera, anche per quanto riguarda la depilazione e in particolare la depilazione femminile.

La depilazione come costrutto sociale

La depilazione femminile, come Marco Menicocci fa notare nel suo breve saggio Il linguaggio della vagina, ha origini ben radicate nella società occidentale e, come ogni tipo di modellazione del proprio corpo, porta con sé un preciso significato racchiuso in un codice non soltanto estetico, ma anche culturale, sociale, sessuale e di genere. Il corpo, del resto, è lo strumento di comunicazione più immediato che possediamo: ancor prima di iniziare a parlare, è la nostra immagine a comunicare all’altro chi siamo.
In una società ipocritamente iper-comunicativa, dove ogni giorno siamo sovra-esposti a una serie infinita di informazioni visive, il corpo, visto come unico tramite concreto, assume ancora più importanza per definire se stessi, la propria identità, il proprio ruolo sociale.

Se la moda dei piercing e dei tatuaggi, come modellazione a tratti estrema del proprio corpo, ha preso piede nella società occidentale soprattutto negli ultimi vent’anni di storia, la depilazione femminile ha origini ben più antiche: l’arte risulta sicuramente uno strumento efficace per analizzare come i codici relativi alla depilazione si siano evoluti nel corso del tempo. La donna, raffigurata senza peli sul corpo, si distingueva anche per questo dalle figure maschili: l’immagine femminea dalla pelle levigata, liscia e pulita, proprio come quella di un bambino, era in contrapposizione con la mascolinità pelosa, ruvida e, per questo, virile dell’uomo.

Proprio da questo codice estetico si sviluppa un codice culturale che associa la depilazione, in qualche modo, all’infantilizzazione: nella maggior parte dei quadri ottocenteschi, ad esempio, le parti intime della donna sono rappresentate glabre, quasi senza dettagli, a indicare una chiara desessualizzazione della figura femminile stessa.
È proprio in questo passaggio che inizia ad apparire una chiara dinamica di potere celata sotto la depilazione, dinamica che nel corso del tempo è andata via via cambiando.

Prendiamo l’esempio dell’Origine du monde di Gustave Courbert, una delle poche eccezioni dell’arte ottocentesca che ritrae il pube femminile pieno di peli: anticipazione di un codice estetico in cambiamento, il quadro ritrae l’organo in maniera realistica e dettagliata. L’opera, in cui si nota la presenza di una folta peluria, rivela tuttavia come la depilazione sia comunque presente, sebbene non usata per annientare ogni pelo, ma soltanto per dare ordine e pulizia.

L’origine du Monde – Gustave Courbert

Si può arrivare, dunque, a dire che, almeno fino a prima della rivoluzione tecnologica, il codice estetico e culturale associava alla depilazione totale un’idea di infantilizzazione e desessualizzazione e, al contrario, alla totale non depilazione l’idea di una sessualità selvaggia, non controllata, pericolosa. La cura per il corpo e la depilazione (totale alle gambe, ma solo parziale a inguine e ascelle) assume così il significato di civilizzazione, sessualità controllata e buon costume.

La depilazione femminile nell’era tecnologica

Con la rivoluzione tecnologica, il codice estetico è andato modificandosi: l’oggetto moderno, all’avanguardia, che attira l’attenzione è l’oggetto pulito, liscio, minimalista e privo di ostacoli. Dagli apparecchi tecnologici tale estetica è arrivata al corpo (come se anche questo fosse un oggetto sottoposto alle regole del marketing): tatuaggi, pezzi metallici come piercing e orecchini, depilazione totale che non coinvolge soltanto la donna, ma anche l’uomo, sono diventate le nuove frontiere dell’estetica di un corpo che non premia più le curve, ma gli angoli.

L’industria del porno ha contribuito indubbiamente a questo cambiamento: passando dal grande al piccolo schermo in termini di diffusione, l’immagine premiata è quella dettagliata ed esplicita, ripulita dell’effetto vedo-non vedo della peluria.

Il codice odierno della depilazione risulta quindi mutato: la visione di un corpo totalmente depilato passa da immagine desessualizzata a immagine iper-sessualizzata. Allo stesso tempo, con la diffusione della depilazione totale, questa diventa simbolo della libertà femminile, in termini di controllo sul proprio corpo e sulla propria sessualità. Al contrario, la non-depilazione viene impregnata del significato opposto: la poca cura di sé, il non rispetto per il proprio fisico e, eventualmente, per il proprio partner. Facendo un passo oltre, la depilazione totale diviene simbolo di pulizia e virtù: depilarsi assume, quindi, il significato di un ritorno a un principio, a uno stato naturale e puro.

Alla depilazione è attribuito, così, un ruolo positivo, naturale e liberatorio, non questionabile.

Dimostrare in linea teorica il falso fondazionalismo del codice estetico, culturale e sociale della depilazione, arrivando a decostruire la dicotomia sessuale è difficile, ma non difficilissimo: applicare tale decostruzione alle proprie gambe, al proprio pube e alle proprie ascelle ha tutto un altro grado di difficoltà.

Soggetto: le mie gambe
Fotografia di Tuscac
Liberamente ispirata alla foto delle gambe di Lisa Lyon, scattata da Robert Mapplethorpe (1981)

Come educarsi a una scelta libera e consapevole

A ventitré anni, mi trovavo a vivere sotto il cielo di uno Stato di New York tutto da esplorare. Immersa nel verde dell’Hudson Valley, le luci della Grande Mela mi hanno irrimediabilmente rubato ogni weekend.
Niente come i grattaceli di Manhattan hanno il potere di farti sentire piccola. Niente come la frenesia della caput mundi della contemporanea società occidentale ha il potere di farti sentire un nulla, in mezzo a un tutto. In una città che ti dà tanto quanto ti toglie, sentirsi invisibile è all’ordine del giorno e proprio da quella invisibilità è nato il coraggio di contrastare una normatività che, fino a quel momento, avevo inquisito solo in linea teorica.

La voglia di esplorare una nuova estetica del mio corpo, di indagare sulla mia stessa pelle la decostruzione di una dicotomia carica di rapporti di potere e la curiosità per la reazione sociale all’ambiguità sessuale creata da questa mia scelta, mi hanno portato a non toccare, quasi per dieci mesi, un rasoio.

L’esperimento, analizzato a posteriori, è stato interessante ed efficace e può essere sintetizzato in tre momenti:

Una prima fase, lunga circa sei mesi, di lotta con me stessa: lo specchio, durante questo periodo è diventato il mio peggior nemico e le pressioni sociali che sentivo mi hanno fatto scendere più volte a compromessi con l’esperimento stesso. Tanto per portare un esempio dell’ambiguità degli impulsi che convivevano dentro di me, il bisogno di giustificare le mie scelte con chi sapevo (o pensavo) avrebbe potuto vedere le mie gambe, il mio pube o le mie ascelle aumentava con l’incrementare dei peli. Il desiderio era di far comprendere a chi mi avrebbe potenzialmente guardata che non mi stavo depilando per una ragione e non perché, semplicemente, non avessi voglia: un tentativo, insomma, di fuggire dal giudizio della società, proprio mentre portavo avanti una lotta atta a combattere il pregiudizio stesso.

Una seconda fase di accettazione ed estremismo: nella tarda quanto improvvisa primavera di New York qualcosa è cambiato e, tra i vestitini sbracciati e i peli, sono riuscita a scegliere entrambi, limitando il senso di disagio a quei trenta secondi prima di uscire di casa con le “gambe da uomo” (come qualcuno le avrebbe definite poi) e il vestiario super-femminile. L’abitudine alla nuova estetica ha favorito l’accettazione: scoprire sensazioni nuove, come quella del vento che muove i peli sulle gambe, o il riscoprirsi bella e sensuale anche con addosso tutto ciò che prima giudicavo ai margini del disgustoso, mi hanno portato a vedere la depilazione come un nemico. Per quanto tentatore, il rasoio simboleggiava per me la sconfitta. Poco mi importava degli sguardi stupiti delle persone o dei commenti: in quel periodo ho fatto dei miei peli la mia forza, la mia identità.

Un’ultima fase, fatta di leggerezza e libertà: incoraggiata a sconfiggere il fondamentalismo che mi aveva colpito (giudicando l’estrema coerenza una gabbia), un giorno, prima di andare in spiaggia, sentendo di nuovo la voglia di depilarmi gambe e ascelle, ho deciso di assecondare tale desiderio. Finalmente mi sono sentita libera da qualsiasi costrizione o estremismo, sia in un senso che in un altro, e arricchita di una leggerezza mai sperimentata prima: quella che non solo ti porta a giudicare, ma anche a sperimentare e vivere, quanto la depilazione non sia in realtà importante o determinante nello stabilire quale sia la tua identità (sessuale, sociale, di genere eccetera).

Avendo sperimentato, con queste tre fasi, come non essere più succube dei peli (nel piccolo) e della normatività estetica, sessuale e di genere (nel grande), concludo sottolineando come, in realtà, il mio esperimento non sia concluso qui: proprio da questa quarta fase esso continua, si espande, muta. Del resto, la lotta alle dicotomie, ai rapporti di potere e al fondazionalismo è una strada alquanto lunga (e lastricata di buone intenzioni).

Viola Scalacci

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