Immaginate la scena: Ahmir è un giovane etiope fuggito dal suo paese; ha affrontato un viaggio di 8.500 km, attraversato il deserto, patito la fame e la sete, è finito preda dei trafficanti di uomini, ha speso i risparmi di una vita per attraversare il Mediterraneo in balìa delle onde, è scappato ai soldati nascondendosi sotto le assi di un camion ed è finalmente giunto a Calais, a pochi passi dal Regno Unito. Purtroppo, però, si accorge che c’è un muro e pensa “Oh no, adesso cosa farò, sarà meglio tornare da dove sono venuto”.
Cari lettori, il sonno della ragione genera muri.
Muri che punteggiano l’Europa “unita”, da quello lungo il confine tra Ungheria e Serbia a quello che accompagna il campo ellenico di Idomeni, tra Grecia e Macedonia. Muri come quelli che spezzano a metà Belfast e Nicosia, per delineare un senso di appartenenza religiosa che si manifesta con il rifiuto e la ghettizzazione del diverso. Muri come quello di Berlino, che divise il mondo in due blocchi contrapposti fino al 1989 o come quello che Donald Trump vorrebbe innalzare nel sud degli Stati Uniti, al confine con il Messico.
Da che parte lo si guardi, ogni muro altro non è che una barriera psicologica, prima ancora che fisica; un tracciato concettuale che separa ciò che dà fastidio o che fa paura, ciò che si vuole rifiutare o difendere, ciò che è tuo da ciò che è mio. Ma la terra non ha frontiere né confini, se non le nuvole del cielo e la profondità degli oceani. La mente umana, invece, ne ha parecchi, e ben più resistenti di un ammasso di mattoni e cemento.
Logico quindi considerare il muro che sorgerà a Calais come l’ennesimo spot propagandistico per affievolire la farsa dei fallimenti in tema di gestione dei flussi migratori, e magari rassicurare la popolazione britannica sull’utilità della brexit.
Come ironizzavo all’inizio, appare davvero difficile pensare che dopo aver percorso migliaia di kilometri e rischiato la vita svariate volte, dei migranti possano arrendersi per qualche metro in più. Non ha alcun senso, se non forse quello di provare a tranquillizzare i tanti camionisti che lavorano in quel tratto, e che purtroppo sono vittime incolpevoli delle circostanze, finendo spesso letteralmente assaltati dai migranti che provano a varcare il confine a bordo dei loro mezzi. Qualcuno vi riesce, altri finiscono per perdervi la vita: già 11, dall’inizio dell’anno.
Migranti che provengono dalla vicina “Giungla“, com’è stato ribattezzato il campo di accoglienza nella città di Calais, trasformato ormai in una bidonville in cui le tende si ammassano tra di loro e la quotidianità è fatta di sfide e sacrifici, piccoli spiragli di umanità tra i banchi di scuole improvvisate e folli salti nel buio di una speranza così vana da sembrare un’assurda bugia, a cui si è creduto per così tanto da non potervi rinunciare neppure dopo aver scoperto la menzogna.
Sono meno di cinquemila a vivere nella Jungle, secondo le stime ufficiali; oltre novemila, invece, secondo le ong che vi lavorano sul campo come L’Auberge des Migrants, che si prodigano ogni giorno di fornire assistenza per quanto possibile e un pasto caldo a tutti.
Calais è una poltiglia di vento sporco e melma. Presto arriverà il gelo a chiudere come un lucchetto un cielo mollemente proteso verso il mare, cupo e stanco come i volti di chi abbozza il senso di resistere nell’anima, e s’incide il sorriso fra una cicatrice e l’altra per illudersi di averne ancora la forza.
Tutt’intorno, l’orizzonte sarà cinto da una catena di cemento. Qualcuno crederà di aver adempiuto al suo dovere, di aver reso la sua nazione un posto più sicuro. Qualcun altro affonderà le mani nel fango e volgerà gli occhi ormai asciutti in direzione della strada. Aspetterà il suo momento: non oggi, probabilmente neppure domani. Ma l’attesa deve sembrare una mera formalità, a chi riceve ogni giorno come un dono insperato.
Grazie ad Ana per avermi dato di che riflettere, e a domenica prossima.
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli