Cari lettori,
ciò che di regola distingue gli scrittori dagli accumulatori di parole, è che i primi sono in grado di attendere di avere tutti gli strumenti e le cognizioni necessarie prima di mettersi a parlare di qualcosa. Da cui possiamo dedurre che non tutti quelli che scrivono sono scrittori. Ogni giorno assistiamo a dimostrazioni più o meno palesi di questa teoria, ma il caso Riina ne è stata una conferma tanto eclatante quanto fastidiosa.

Come di consueto, in giro abbiamo incontrato migliaia di giuristi, o procuratori antimafia, o confessori in procinto di effettuare l’estrema unzione. Osservando il dibattito intorno alla presunta scarcerazione di Totò Riina due sono le considerazioni fondamentali che si possono ricavare:

– vogliamo essere tutelati e protetti dalla legge, ma al momento opportuno, ovvero quando ci fa comodo, il nostro giudizio vale più della nostra morale;

– siamo molto più preoccupati di come si debba morire piuttosto che di come si debba vivere.

In realtà, se volessimo, potremmo essere ancora più polemici. Potremmo, ad esempio, sottolineare come in Italia appaia ridicolo parlare di “morte dignitosa”, visto l’ostracismo bigotto e bipartisan in tema di fine vita dimostrato in questi anni e dal momento che in Parlamento non si sia neppure riusciti a discutere dei disegni di legge in materia di eutanasia (i dati Openpolis ci vengono in aiuto).

Ma divagheremmo. Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi che razza di nazione sia quella in cui la sorte di un boss mafioso pluriomicida diviene l’unico pretesto per riportare in auge la memoria di personaggi come Falcone e Borsellino. Senza la querelle su Riina, probabilmente quasi nessuno si sarebbe ricordato di loro, nonostante siano trascorsi ormai 26 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Allora magari è vero che l’occasione fa l’uomo ladro, ma di sicuro la polemica fa l’uomo memore.

E la sorte di Riina – che, detto fra i denti, tutti noi ci auguriamo soffra i suoi crimini fino all’ultimo degli istanti che gli rimangono – diventa allora, grottescamente e surrealisticamente, l’eutanasia della memoria per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e per tutte le vittime dimenticate dalla superficialità del quotidiano e dall’insipidezza del conformismo; per quei volti cancellati, quelle foto ormai sbiadite che tornano buone soltanto in occasione di ricorrenze o manifestazioni.

Avrei trovato più sensato discutere, invece, delle premure di uno Stato nel garantire una morte dignitosa contrapposte all’inerzia e all’incapacità nel garantire una vita dignitosa. Avrei preferito dibattere di come spezzare le catene della precarietà che frantumano le caviglie di tre generazioni senza lavoro, reddito e tutele sociali.

Di come interrompere le “onagrocrazie” con cui Benedetto Croce descriveva i governi fascisti e con cui noi potremmo descrivere i governi che hanno consentito la devastazione occupazionale, la desertificazione industriale, l’avvelenamento ambientale. Di come garantire il principio di legalità anche per le vittime e i loro familiari, e la certezza della pena per chi spara e uccide senza neppure nascondersi senza far più distinzione fra buoni e cattivi, criminali e innocenti.

È senz’altro in questo modo che avremmo onorato la memoria e l’esempio di Falcone, Borsellino, La Torre, Dalla Chiesa, Impastato e di tutti gli altri che per mano delle mafie non hanno avuto una morte dignitosa; non scagliandoci addosso a Riina e a ciò che dovremmo fare di lui.

Pietro Grasso nel ricordo di Falcone e Borsellino
Pietro Grasso

Appare quindi più logica e ragionata la proposta, sebbene un po’ provocatoria, di Pietro Grasso, ex presidente del Senato, ribadita anche alla presentazione del libro Storie di sangue, amici e fantasmi presso la Feltrinelli di piazza dei Martiri a Napoli: “Se vuole un trattamento migliore, collabori”.

Che non sarebbe come un pentimento o una redenzione, impossibile da immaginare, ma comunque qualcosa.

Ecco le dichiarazioni che Pietro Grasso ci ha rilasciato nell’occasione:

Otto omicidi nelle ultime due settimane soltanto a Napoli e provincia. L’Italia, e il Meridione in particolare, è ancora ostaggio di paure e di insicurezze. Che differenza vede fra i nostri tempi e l’Italia che usciva dal maxiprocesso, e nella capacità dello Stato di reagire e fronteggiare le mafie?

Ho visto che in questo periodo c’è stato un rinnovarsi di omicidi e di violenza nel napoletano, ma devo dire che le forze dell’ordine e la magistratura, facendo un lavoro encomiabile, stanno portando avanti il senso di sicurezza dei cittadini. Naturalmente sono fenomeni assolutamente diversi, e anche questi omicidi non sono tutti ricollegabili fra di loro, ma sappiamo bene che ovunque ci siano interessi di un certo tipo la camorra cerca di infiltrarsi, e quindi i contrasti alle volte vengono risolti in maniera violenta, ma sono certo che il controllo del territorio sarà ripreso egregiamente dalle forze di polizia e dalla magistratura.

Il suo libro si apre e chiude con due lettere indirizzate a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che lei descrive come qualcosa in più di semplici colleghi, come figure familiari, quasi come dei fratelli. Se potesse tornare indietro, direbbe loro di rifare tutto esattamente allo stesso modo, o gli suggerirebbe di cambiare qualcosa?

Sono sicuro che loro farebbero le stesse cose, come ho già detto, così come anch’io del resto farei le stesse cose. Non ho né rimpianti né rimorsi.

Emanuele Tanzilli

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