Cari lettori, quel “NO” impresso a chiare lettere sulla porta di Palazzo Chigi è un’eredità storica che si addentra ben oltre le sue conseguenze politiche. Il referendum costituzionale potrebbe e dovrebbe rappresentare la cartina tornasole di uno stato emotivo che ribolle nel ventre del Paese, trasversalmente in ogni fascia d’età, classe sociale e cultura ideologica.
Che Renzi ne abbia fatto un lancio di moneta da cui far dipendere il destino del suo esecutivo, è un puro corollario. Le tessere del domino hanno preso inesorabilmente a cascare, una dopo l’altra, e prima che giungano alla fine è opportuno interrogarsi sul significato e il valore del voto in termini concreti e futuribili.
Quindi, a cosa è servito questo referendum? Indovinate un po’: a un bel niente.
Il clima in Italia è rimasto lo stesso, e non parlo dei primi freddi invernali. Renzi, come un bimbetto a cui hanno sottratto il giochino, è andato via sbuffando senza il minimo accenno di autocritica. Qualcuno tra i suoi pretoriani si è lasciato andare ad insulti neppure troppo velati nei confronti degli “invidiosi” che hanno osato fermare il vento del cambiamento. A tal proposito, risulterebbe opportuno chiamare in causa il pungente sarcasmo di Bertolt Brecht:
Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo.
E invece, ad essere nominato, sarà un nuovo Presidente del Consiglio. Che tutto lascia presagire sarà nientepopodimenoché Paolo Gentiloni, ex ministro degli Affari Esteri, tra i fondatori de La Margherita, fervente interventista, uomo con lo scudo crociato al posto del cuore e uno spessore politico riscontrabile soltanto al microscopio.
La cena è servita, cari italiani: minestra fredda e pane raffermo, poi tutti a nanna.
La probabile nomina di Gentiloni, nel più classico solco del gattopardismo italiano, è il preludio all’ennesimo governicchio privo di legittimazione popolare, che avrà tuttavia l’arduo compito di condurre all’approdo una nuova legge elettorale. Presto, prestissimo.
E tuttavia, se Atene piange, Sparta non ride neppure col solletico sotto i piedi.
Mentre il Partito Democratico si lecca le ferite e si avvia a una nuova fase congressuale, c’è chi come Grillo, dopo aver osteggiato per mesi il combinato disposto, propone di andare al voto estendendo l’Italicum al Senato (perché le leggi elettorali sono incostituzionali soltanto se favoriscono gli altri); chi come Berlusconi, a ottant’anni suonati, invece di scegliere la cripta più comoda si ripropone a guida del centrodestra unito; e chi a sinistra già si eccita al pensiero di riproporre l’alleanza con un PD a trazione più socialista, guidato magari da qualcuno come Enrico Rossi o Michele Emiliano.
A questi reietti del buonsenso, abbandonati da ogni divinità concepibile, non resta che rispondere nell’unico linguaggio da loro compreso: il tracollo elettorale.
Perché se il referendum ci ha davvero insegnato qualcosa, ed io voglio ostinarmi a sperare di sì, è che il popolo non è più disposto a tollerare privazioni e vessazioni, che non teme più gli spauracchi dei mercati finanziari e della tecnocrazia comunitaria.
Per quanto possa apparire paradossale, le istanze contenute nei voti a favore del Sì e del No – almeno, in una parte di essi – hanno alcune radici simili di rifiuto dello status quo, e non nell’accezione di governo di un ceto dirigente inviso al popolo, ma come rifiuto dell’austerità unilaterale, della mediocrità politica, dell’asservimento a logiche contabili, disumane, sideralmente lontane dalla realtà.
Al netto di vendette politiche e rese dei conti, la misura più icastica di questo referendum è un ritrovato orgoglio, un coraggio forse smarrito nell’esiguità delle forze, che oltre a riaffermare il concetto di sovranità popolare su qualsiasi manovra di palazzo, consegna ai “posteri” un messaggio da non sottovalutare: la corda è ormai spezzata, nessuno pensi di tirarla ulteriormente.
Buona domenica, lettori cari.
Emanuele Tanzilli
Non sono così pessimista come Emanuele e non certo perchè ritengo Gentiloni la scelta migliore.
Diciamo che, alle condizioni date e non essendoci alle viste un’ipotesi pure peggiore come un governo di larga coalizione, Gentiloni può essere considerato il meno peggio rispetto al Renzi bis.
Anche perchè l’ego ipertrofico del disoccupato di Pontassieve potrebbe soffrire della lontananza da Palazzo Chigi persino con un Presidente che , evidentemente, non lo impensierisce quanto ad immagine pubblica.
Originale, poi, la parte di analisi di Emanuele che vede accomunati il NO ed una aliquota del SI (non so quanto consistente)in una comune voglia di cambiamento.
Magari a sconfiggere il pessimismo nascente potrebbe essere un rimescolamento del campo della Sinistra in una direzione,però, diversa dalla ipotesi di Pisapia.
Bisogna lavorare per quello.
E se posso suggerire una lettura in questo senso segnalerei l’intervento di Tomaso Montanari, ieri su Repubblica