Può una legge sul cosiddetto “fine vita” sancire la differenza tra una società moderna ed una retrograda, ancora riluttante ad aprirsi a dinamiche che fino a pochi anni fa erano considerate tabù? Molto probabilmente sì perché oggi, correndo l’a.d. 2017, siamo tutti costretti, volente o nolente, a guardare avanti, tanto più se parliamo di diritti e dignità dell’essere umano.

Ma una legislazione attuale e moderna nel nostro paese manca e non è cosa da poco perché accade che si parli di fine vita soltanto in situazioni limite con pazienti costretti a ricorrere a determinate pratiche in altri paesi e a costi esorbitanti non soltanto in termini economici, quanto di dignità e rispetto della persona.

Il caso più recente, per fare un esempio, di DJ Fabo che malato di SLA è ricorso all’eutanasia in Svizzera, ha sollevato un putiferio dal punto di vista non solo della discussione ma anche della legalità in quanto il radicale Marco Cappato, reo di averlo “accompagnato”, è tutt’ora sotto indagini e al centro di una polemica ancora lontana dall’essere dipanata.

Una mancanza che pesa quindi, quella della legislazione riguardo il “fine vita”, nella cui sfera ruotano tuttavia molte altre questioni che vanno dalle cure palliative alla terapia del dolore passando per la libertà di rifiutare le cure, nell’ambito del delicatissimo capitolo sull’accanimento terapeutico.

Adesso pare che ci siamo, o quantomeno ci proviamo, visto che in parlamento è pronto un disegno di legge che ha l’obiettivo di “modernizzare” quantomeno le possibilità di decidere della propria vita.

Cosa c’è quindi e soprattutto cosa manca nella legge sul “fine vita” che pare prossima ad essere votata? 

Tanto per cominciare il DDL si scontrerà con l’assenza di equilibrio tra Camera e Senato con quest’ultimo che pare essere lo scoglio più grosso, vista l’esiguità della maggioranza (alla Camera è già stato approvato lo scorso 20 aprile).

In tema di contenuti invece la legge sul “fine vita” ruota intorno al fulcro centrale del cosiddetto DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), ovvero la possibilità di dichiarare i propri intenti riguardo la somministrazione delle cure, con la possibilità per il paziente di “richiedere” una sedazione progressiva e profonda, per poter morire senza sofferenze.

Molto probabilmente la legge sul “fine vita” non sarà completa e rivoluzionaria ma, pensando agli standard cui siamo abituati, appare un buon provvedimento, se non altro per il fatto che non c’è differenziazione tra strutture pubbliche e private e che le situazioni di incurabilità vengono finalmente viste dal punto di vista dell’accompagnamento alla morte.

Quello che probabilmente peserà, oltre agli equilibri politici, è la “predisposizione” ad accogliere il provvedimento, se mai verrà attuato, da parte di chi poi andrà ad effettuare questo tipo di interventi.

C’è il rischio, grosso, che la legge sul “fine vita” si scontri di nuovo con la riluttanza a progredire di un paese ancora molto conservatore e che ciò che succede troppo spesso con aborto ed obiezione possa ripetersi. Sarebbe veramente poco dignitoso dopo il “non trovare disponibilità per abortire” (usando una terminologia cruda ma purtroppo reale) avere per i pazienti terminali difficoltà nell’applicazione reale di questi principi che pare ci si appresti ad approvare.

Al di là di come la si pensi oggi c’è la possibilità di rendere più dignitose le situazioni più gravi, la fine della vita e anche della sofferenza. Aggiornarsi ci allontanerà sicuramente da un impianto conservatore e fin troppo legato ai principi religiosi, ma di certo ci renderà un paese più giusto.

Mauro Presciutti

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