Immagina di vivere un Paese dove c’è poca acqua e sono per lo più i grandi gruppi industriali ad appropriarsene. Immagina la tua terra arida, assetata, e la tua gente costretta ad elemosinare un diritto essenziale alla sopravvivenza. Immagina di essere in Cile: ti chiami Carolina Vilches Fuenzalida e, da più di dieci anni, sei attivista del Movimiento de Defensa por el acceso al Agua, la Tierra y la Protección del Medioambiente (MODATIMA) insieme ad altre donne e ad altri uomini che, come te, credono che l’accesso all’acqua e la tutela della terra siano diritti umani basilari e che ciascuno, a qualsiasi latitudine del mondo, dovrebbe vedersi riconosciuti.
Tu lo vivi il tuo territorio, lo ascolti. E, quando non sai, chiedi; quando pensi di non poterci arrivare da sola, ti rivolgi agli altri. Fai delle comunità intorno a te, parte della tua casa e dei bisogni del tuo territorio, bisogni del tuo corpo. Come se fosse la tua gola a chiedere acqua e la tua pelle a pregarti di proteggerla.
Poi un giorno, denunci una grande impresa agricola che – sembrerebbe – continua ad estrarre acqua senza tener conto della sua scarsità e dei bisogni di tutti. Ricevi minacce di morte, intimidazioni, addirittura cercano di investirti mentre cammini per strada con tuo figlio, che ha 12 anni. E, a proteggerti, non trovi né le forze di polizia né le Procure della Repubblica. A proteggerti, come proteggi l’acqua, la terra, l’aria del tuo Paese, devi pensarci da sola.
No es saquìa, es saqueo.
“Non è siccità, è saccheggio”. È così che Modatima, l’organizzazione per la difesa dell’acqua, della terra e della protezione dell’ambiente della provincia di Petorca, in Cile, descrive quanto sta accadendo nella regione del Valparaíso. Dal 2010, il movimento cileno denuncia e porta alla luce quelli che vengono definiti come veri e propri furti d’acqua compiuti da “aziende agroindustriali appartenenti a imprenditori collusi con la classe politica”.
Uno studio del 2019 condotto dalla Fondazione Amulén in collaborazione con l’Università Cattolica del Cile ha evidenziato come, secondo un censimento del 2017, circa il 10,1% della popolazione cilena sia rurale. 1,7 milioni di persone che vivono di agricoltura o di lavori ad essa connessi. Di questi, sempre secondo lo studio della Fondazione Amulén, la metà vivrebbe senza acqua potabile e 380.000 sarebbero fornite solo da camion cisterna.
In questo contesto, le donne di Petorca, costituitesi nell’organizzazione Mujeres Modatima, continuano a denunciare gli abusi socio-ambientali e le prevaricazioni dei privati nella gestione dell’acqua, ma ogni nuova denuncia si scontra con il silenzio-assenso e l’indifferenza del proprio governo mentre crescono le intimidazioni, le molestie. la censura e le minacce di morte. Senza che vi siano indagini o protezione.
Il Cile e la dittatura dell’acqua
È con la Costituzione approvata nel 1980 sotto la dittatura militare di Augusto Pinochet che il Cile subisce la privatizzazione di alcuni servizi essenziali. Tra questi, come conseguenza di un estremo sistema neoliberista, anche l’acqua sortisce lo stesso destino. L’articolo 24 del Codice Idrico – inserito nella Costituzione cilena – recita infatti che: «I diritti delle persone sull’acqua, riconosciuti o costituiti in conformità con la legge, concederanno ai loro detentori la proprietà su di essa». Chi detiene i diritti, detiene la proprietà. Ma che succede se, questi diritti, non appartengono più allo Stato ma vengono ceduti a privati?
L’impianto fortemente liberista voluto e introdotto in Cile durante la dittatura di Augusto Pinochet – insieme ad un naturale desiderio di riappropriazione e gestione libera ed indipendente del proprio Paese – viene messo in discussione nel Referendum indetto nel 2020 dal Presidente Sebastian Piñera. Il 25 ottobre, ben il 78,12% degli aventi diritto al voto esprime la propria preferenza per la scrittura e l’adozione di una nuova Costituzione, maggiormente inclusiva ed in grado di tradurre aspettative e bisogni reali della popolazione.
Nella nuova assemblea costituente viene eletta anche Carolina Vilches Fuenzalida. Nel suo programma elettorale, la difesa dell’acqua, dell’ambiente e dei diritti umani dalle prevaricazioni dei privati e dall’ignavia del suo governo. Sul suo sito web si legge: “dal territorio, alla Costituzione”. Ed infatti, il percorso di Carolina parte dalla terra del suo paese, dai gruppi rurali che elemosinano l’acqua per sopravvivere, passa per minacce, intimidazioni e atti violenti per arrivare a scrivere la Carta della propria Democrazia. E non è una questione di genere, non è una guerra tra sessi, nel Cile che chiede parità al suono di slogan quali “Democracia en el país y en la casa”.
È sangue che si fa polvere e pelle che si fa terra. È la lotta che Carolina non ha scelto. Perché le radici, l’attaccamento alla propria terra e la volontà di non vederla saccheggiata, maltrattata, derubata e impoverita è prerogativa di tutti ma condanna di pochi. Ha a che fare con il sangue, con la sensazione di essere parte di un posto, non solo ospite. È un richiamo, un rimprovero se lo si ignora, una necessità assoluta che Carolina Vilches Fuenzalida in Cile, come Daphne Caruana Galizia a Malta e tutte le altre donne e gli altri uomini appartenenti alle loro terre, non potrebbe mettere a tacere neanche con la più ferma volontà.
Tutti i simboli sono inutili e necessari allo stesso tempo e Carolina Vilches Fuenzalida, ad essere un simbolo, non ci pensa proprio.
E come lei, anche Veronica Vilches, Lorena Donaire Cataldo e le altre Mujeres Modatima: mentre i detrattori ingiuriano, molestano e feriscono i loro corpi, questi si fanno bandiera e baluardo di una terra che si affida alle sue donne per essere protetta, alle loro voci per essere difesa, al loro coraggio per essere tutelata. E non c’è minaccia che tenga, non c’è paura che resista, per le donne che lottano.
Edda Guerra