Donne che si scagliano contro altre donne, anni e anni di femminismo gettati alle ortiche, sostenitori a spada tratta di Weinstein che hanno fatto del brocardo «innocente fino a prova contraria» una scusa per attaccare chi trova il coraggio di dichiararsi vittima di un abuso, combattenti che vestono alla marinara (a patto che sia una marinara Armani) e che si autoproclamano paladine della legge venute fin qui per cavalcare l’onda dello scandalo e punire in nome della visibilità social. Nel web è possibile pescare di tutto, oramai.

Lo scandalo Weinstein sta portando alla luce un numero sempre maggiore di vittime di abusi.

Star del cinema, nomi noti e meno noti di donne che sarebbero state costrette per anni a subire le molestie da parte del co-fondatore della Miramax Films. A dare avvio a questa catena di denunce, Georgina Chapman, la (quasi) ex moglie di Weinstein, seguita da varie personalità di spicco, un bouquet di stelle che va da Angelina Jolie a Gwyneth Paltrow, da Rosanna Arquette a Katherine Kendall e che, nelle ultime ventiquattr’ore, si è arricchito con una new entry: l’italiana Asia Argento.

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Parliamo di attrici così conosciute a livello internazionale da non aver bisogno di dover cavalcare l’onda dello scandalo per far parlare di sé, donne che si sono distinte per la loro capacità di recitazione e per il loro talento. Insomma, di donne che non necessitano di dichiarare il falso unendosi alla schiera delle ‘abusate dall’uomo potente di turno’ pur di avere i loro quindici minuti di notorietà.

Quelle stesse donne che adesso guardiamo con ammirazione, atterrate ancora ragazzine sul pianeta dello show business e cresciute a pane e pellicole cinematografiche, le stesse che hanno segnato un’intera generazione recitando in film intramontabili, proprio quelle donne che adesso ai nostri occhi appaiono così forti e risolute, all’inizio, come chiunque altro, non lo erano affatto.

Do you like your job?: in un episodio di Betty Boop del gennaio 1932, intitolato Boop-Oop-a-DoopBetty veste i panni di una domatrice di leoni, con tanto di giarrettiera e frusta. Dopo una giornata di lavoro, Betty è intenta ad incipriarsi il suo nasino in bianco e nero, quando all’improvviso irrompe nella sua tenda il Ringmaster, il direttore del circo che le pone con fare ammiccante la fatidica domanda: «ti piace il tuo lavoro?».

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La povera Betty annuisce e, per tutta risposta, il Ringmaster comincia a toccarle le gambe sussurrandole all’orecchio proposte lasciate all’immaginazione dello spettatore. Ma Betty è forte – dopotutto è una domatrice di leoni – e lo colpisce in viso disgustata. Il direttore del circo comincia ad inseguirla all’interno della tenda mentre lei gli intima di star lontano e piange disperata. Quando la scena si sposta all’esterno del tendone, è abbastanza chiaro che il grosso e grasso businessman sia riuscito anche stavolta ad ottenere ciò che voleva. Ma Betty Boop è un vecchio cartone animato, non è la vita reale, c’è Koko il clown a salvarla dalle grinfie del suo molestatore, infilandolo in un cannone e sparandolo il più lontano possibile.

Era il 1932 e i fratelli Fleischer hanno saputo magistralmente rappresentare la tipica situazione di molestia sessuale. Lo scandalo che vede protagonista Harvey Weinstein ricalca perfettamente l’episodio sopracitato. Ragazze desiderose di far carriera costrette a subire gli abusi di chi, essendo in grado di trasformare il loro sogno in realtà, si arroga il diritto di pretendere delle attenzioni particolari. Non sapendolo, i creatori della bicromatica Betty Boop, hanno inserito all’interno dell’episodio un elemento fondamentale, assai noto agli avventori del web, elemento grazie al quale opinioniste e blogger possono dire di aver trovato uno scopo nella vita: i leoni (da tastiera).

Armate di fruste immaginifiche, con la denuncia sempre pronta e la perfetta messa in piega, queste paladine della giustizia all’interno del web sono sempre pronte a difendere gli oppressi e gli emarginati, purché siano indicati nei trend di Google, ovviamente. Belle e impavide, macinano chilometri di post per esprimere le loro seguitissime opinioni su temi più che attuali, contornati dall’hashtag giusto inserito al punto giusto. La SEO, praticamente, l’hanno inventata loro. L’indicizzazione di Google deve aver dato come nome principale quello della povera Asia Argento che, nelle ultime ventiquattr’ore, si è vista assalire da migliaia di leoni da tastiera che le hanno molto poco carinamente fatto notare quanto sia sbagliato denunciare un molestatore dopo vent’anni dai fatti accaduti.

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Dev’esserci da qualche parte nel web un vademecum della denunciatrice perfetta di abusi sessuali che probabilmente mi è sfuggito. Una sorta di manuale che spieghi alle vittime di molestie quando e come parlare alle autorità, in che modo rilasciare dichiarazioni ai giornali a proposito dell’accaduto, quale dev’essere il contegno da mantenere in pubblico, quale l’atteggiamento davanti alle telecamere e così via.

Trattandosi di fatti accaduti vent’anni fa, risulta quasi impossibile dimostrare le dichiarazioni rilasciate dalle star. Weinstein, pur di far tacere il tam tam dovuto allo scandalo, ha già provveduto a dichiarare che si sottoporrà ad una terapia di riabilitazione per curare la sua dipendenza dal sesso. Restano le vittime degli abusi, date in pasto ad opinioniste come Selvaggia Lucarelli e Vladimir Luxuria che, data la loro enorme notorietà sui social, invece di sottolineare quanto tempo abbia impiegato Asia Argento a denunciare gli abusi, dovrebbero invogliare le vittime di molestie a farsi avanti, senza limite di tempo alcuno.

Perché alcune ferite impiegano anni a rimarginarsi, mentre altre non smettono mai di sanguinare. Può succedere però che qualche donna coraggiosa, che non tema per la sua carriera e che non abbia paura di essere accusata di aver dichiarato il falso (come la futura ex moglie di Weinstein) si alzi in piedi e gridi a gran voce denunciando le molestie subite. E se proprio questo è ciò che doveva accadere per consentire a tutte le altre vittime di uscire allo scoperto, anche dopo vent’anni, allora meglio tardi che mai.

Sara Cerreto

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