“Buongiorno a tutte, ragazze!”
Cosa accadrebbe se, entrando in una classe di primo mattino, i professori esordissero così? Immaginiamo assieme: parole di diniego, lamenti, persino delle giovani donne sedute che – anche se in maggioranza – resterebbero stranite. È invece normale ogni mattina essere accolte con un “Ciao a tutti!”, anche se in classe ci sono otto ragazzi e in totale noi, le ragazze, siamo in ventiquattro.
Questo non ci fa sentire inadeguate, non ci ferisce, perché ci hanno insegnato che deve essere così, essere chiamate e nominate al maschile, inglobate in un’unica immagine, quella di tutti maschi. Eppure l’origine di questa usanza ha radici nel concetto, nell’unico scopo di escludere le donne da tutto, persino dalla lingua. Possiamo affermare perciò che le parole sono specchio di una cultura e di una società? La nostra società è androcentrica? E allora anche la nostra lingua lo sarà. Basta pensare al maschile sovraesteso in ogni occasione o al fatto che nell’editoria, nel trattare casi di femminicidio, spesso si allude all’idea che vi sia una giustificazione per il carnefice (frequenti parole come ‘raptus’, ‘gelosia’, ‘folle amore’) o una colpa in chi subisce, spesso solo donne.
Perpetuando questo comportamento linguistico anche nel presente, non facciamo altro che trascinare lo strascico infinito di ingiustizie e oppressioni che avremmo dovuto tagliare già molto tempo fa.
Ci piace pensare alla storia di Lidia Poet: classe 1855, fu una delle prime donne a laurearsi in giurisprudenza. La Corte di Cassazione respinse la sua domanda all’iscrizione all’Albo degli Avvocati, adducendo tra le motivazioni anche “l’inesistenza del termine “avvocata”, motivo per il quale la sua professione non poteva esistere, come possiamo leggere in Chiamami Così, ultimo libro di Vera Gheno, che abbiamo avuto l’onore di avere tra le nostre testimonial a Prime Minister Basilicata.
Se, invece, lasciassimo parlare le donne dei loro reali sogni, ci accorgeremmo di quante di loro ambiscono a grandi cose, a grandi cariche. Hanno però un ostacolo che tarpa le loro ali già in partenza: gli appellativi professionali. Quante volte ci è capitato di leggere o sentire al telegiornale “il presidente”, “l’avvocato”, “il medico”, o “il direttore” seguito dal nome (sì, a volte senza neanche il cognome) di una donna? Non vi pare una distinzione sottile ma piuttosto netta?
È triste pensare che l’informazione sia monopolizzata da forme di pensiero desuete e che, al giorno d’oggi, i giovani vengano educati in un mondo ancora troppo poco inclusivo. La lingua è un prodotto sociale. Proprio per questo è importante cambiare le nostre parole per non riproporre, seppur non rendendocene conto, messaggi certamente sbagliati e che non rispecchiano i nostri ideali moderni.
Le ragazze di Prime Minister Basilicata