In Italia, puntuale e certa come una crisi di governo – reale o solo temuta – c’è solo l’avvicendarsi delle stagioni. E, del resto, le stagioni della politica italiana sono segnate dalla certezza che una crisi, prima o poi, ci sarà, a prescindere addirittura dalle epidemie e dalle guerre.
Nella serata di lunedì 11 luglio, Mario Draghi sale al Quirinale per parlare con il capo dello Stato, dopo che i deputati del M5S decidono di non partecipare al voto sul decreto legge Aiuti. Che viene approvato – 266 i voti favorevoli, 47 i contrari – ma senza parte della maggioranza che compone l’esecutivo: i 104 pentastellati presenti escono dall’aula. Non è chiaro se il colloquio con Sergio Mattarella vertesse anche sullo strappo e sull’eventuale crisi di governo. Martedì 12 luglio, Draghi incontra i segretari generali dei sindacati Cgil, Cisl e Uil per parlare di lavoro e del prossimo decreto – in uscita prima della pausa estiva – sul salario minimo e le pensioni. Durante la conferenza stampa successiva all’incontro con le parti sociali, Draghi ribadisce che «non c’è un governo senza i 5 Stelle, non c’è un governo Draghi alternativo a quello attuale. Il governo sta affrontando bene questa fibrillazione nella maggioranza, e procede con le sue attività. Diverso sarebbe se non riuscisse a lavorare: a quel punto non avrebbe più ragione di esistere». Come a voler dire: “Vado avanti, finché non mi viene impedito di farlo“.
Su chi gli ha chiesto se il provvedimento sul salario minimo non fosse anche un modo per venire incontro al M5S e, così, evitare eventuali crisi di governo, Draghi ha detto che le richieste di Conte hanno «punti di convergenza con l’agenda di governo», e che l’incontro con le parti sociali va in quella direzione, aggiungendo che il leader pentastellato «dovrebbe essere contento».
Si attende per giovedì il passaggio del decreto al Senato e, secondo quanto riportato dall’Ansa, anche a palazzo Madama il movimento 5 stelle si asterrà dal voto. Conte ha sostenuto che la decisione di astenersi dal voto alla Camera era già stata annunciata, mentre Forza Italia e Lega chiedono di verificare che una maggioranza esista ancora.
Il decreto legge Aiuti, pubblicato il 17 maggio scorso, non aveva raccolto il favore del M5S sin dal passaggio in consiglio dei Ministri: in quella sede i titolari dei dicasteri pentastellati avevano deciso di non votare. Il provvedimento prevede diverse misure per fronteggiare i contraccolpi della guerra in Ucraina, specie per quanto riguarda i rincari conseguenti alla crisi delle forniture energetiche. Per esempio, bonus immediati sulle bollette della luce e del gas in proporzione all’Isee, crediti d’imposta per le imprese che vogliano acquistare energia elettrica e gas, abbonamenti agevolati al trasporto pubblico locale per le famiglie meno abbienti. Il decreto legge, però, in aula non ha incontrato i desiderata dei 5 Stelle su due punti in particolare: l’assenza del “Superbonus del 110%” e la disposizione che, dando maggiori poteri al sindaco di Roma sulla gestione dei rifiuti, dà di fatto il via libera alla costruzione del termovalorizzatore nella capitale, annunciata da Roberto Gualtieri ad aprile.
Viene da chiedersi, però, come un partito in crisi possa innescare una crisi di governo. Dopo la dipartita dal M5S di Luigi Di Maio, che ha anche creato un nuovo gruppo parlamentare, Giuseppe Conte dovrebbe puntare dritto alla ricostruzione (o costruzione?) del consenso, per avere qualche speranza di vincere le elezioni politiche del 2023. Ma come? Rimanendo o uscendo dalla maggioranza?
Un’uscita palese con conseguente crisi di governo ed elezioni anticipate potrebbero nuocere a un partito che sta vivendo un vistoso calo di consensi. Secondo l’ultimo sondaggio YouTrend, il M5S è al 10,7%, e ha perso due punti percentuali in due settimane. Tiene banco invece Fratelli d’Italia (22,5%), seguito dal Pd (21,8%). D’altro canto, i numeri per far passare i provvedimenti in Parlamento ci sarebbero, pur senza il Movimento: 449 su 630 alla Camera, 203 su 321 al Senato. Ma, come ribadito dallo stesso Draghi, non ci sono margini per un Draghi bis con una maggioranza diversa.
Non resta che aspettare. I governi italiani vivono di fibrillazioni: 67 esecutivi in 76 anni di Repubblica hanno un loro peso su chi si avvicenda, con una media di poco più di un anno, sulla sedia di primo ministro. E anche Draghi, come chi l’ha preceduto – guarda caso, proprio Conte – lo sa: andrà avanti, finché non gli verrà impedito di farlo.
Raffaella Tallarico