Ci risiamo. Di nuovo, Independencia. Per l’ennesima volta Barcellona e l’intero popolo catalano vogliono far sentire la propria voce, e vogliono farlo in maniera definitiva. In vista del prossimo Referendum fissato per il 1 ottobre, in occasione della “Diada de Catalunya” più di 500.000 persone hanno sfilato lungo le strade al grido di Indipendenza, raccogliendosi in un corteo che stavolta sembra impressionare più delle altre volte l’intera Spagna e il Governo Rajoy.
La storia di Barcellona e dell’indipendenza ha radici antiche, risvolti moderni e soluzioni lontane. Può essere assimilata a quei rompicapi infiniti ed irrisolvibili, che a volte sembrano così vicini ad una risoluzione, ma che poi, inevitabilmente, finiscono per tornare al punto di partenza. Infiniti come il tiki taka, quella rete interminabile e ipnotizzante di tocchi capace di mandare in tilt gli avversari di turno. Con un’unica differenza: mentre il tiki taka conduce il più delle volte al gol, ciò che, al contrario, manca ai movimenti indipendentisti, è la concretizzazione, a causa della presenza di voci contrarie all’indipendenza, in buona parte provenienti anche dalla stessa Comunità Autonoma Catalana.
Esempio lampante è la tifoseria dell’Espanyol che, al contrario di quella del Barça, raccoglie gran parte dei catalani contrari alla Secessione da Madrid.
Sabato scorso, mentre al Camp Nou andava in scena il “derbi català”, sugli spalti, davanti alle tv di casa, per le strade e, perché no, anche sul terreno di gioco, si giocava un altro derby che vedeva contrapposti i catalani indipendentisti ai catalani fedeli al governo centrale, alla Spagna unita. Perché, contrariamente a quanto si possa pensare, la Catalogna non è tutta per l’indipendenza, numerose sono le comunità interne contrarie all’”affrancamento”, così come numerosi sono i cittadini che, ogni qualvolta vengono chiamati alle urne per esprimere la propria posizione sull’indipendenza, manifestano un voto negativo. La conferma si è avuta nell’ultima consultazione elettorale in Catalogna dello scorso settembre 2015, quando i partiti indipendentisti, pur conquistando congiuntamente la maggioranza dei seggi in Parlamento, non riuscirono a raggiungere la maggioranza assoluta dei voti, fermandosi al 48 %. Tra il restante 52 % ci saranno stati indubbiamente diversi aficionados dell’Espanyol, storicamente contrari al concetto di oppressione espresso dai secessionisti.
Barcellona-Espanyol è anche questo, una sfida tra due realtà tanto vicine quanto contrapposte; una rivalità che va al di là del calcio, e che si proietta sul piano sociale, generando un intreccio tra Fútbol e Política che negli ultimi anni è più sentito che mai. Il confronto tra i due club parla chiaro: strapotere, se non dominio assoluto, del Barça, in termini di titoli e di scontri diretti. Lo scorso sabato, con un netto 5-0 caratterizzato da una tripletta del solito Leo Messi, i blaugrana hanno portato a casa il loro 119esimo successo in 204 confronti con i cugini rivali, fermi a sole 43 vittorie. Mentre sono 42 i pareggi, tra i quali si annovera il famosissimo e fatale, per il Barcellona, 2-2 registrato al Camp Nou il 9 giugno 2007, il giorno del “Tamudazo”: con la Liga ormai in tasca, Il Barça si distrae e il capitano dell’Espanyol, Raúl Tamudo, mette a segno due gol, di cui uno al 94’, che di fatto regalano il campionato al Real Madrid di Fabio Capello. Uno di quei giorni in cui l’orgoglio della minoranza calcistica di Barcellona si è imposto sul despotismo blaugrana, che da sempre popola e governa ogni angolo della città in termini sportivi, economici e di marketing: il giorno in cui il passionale motto “la força d’un sentiment” ha prevalso sul presuntuoso slogan “més que un club”.
Infatti, è proprio così, a livello calcistico la città di Barcellona si identifica quasi pienamente con la società FC Barcelona. Un dominio che si estrinseca attraverso giganteschi cartelloni pubblicitari, musei del calcio, stadi e locali dedicati al club, al quale il governo della città deve l’1,2 % del proprio PIL ed il 6% annuo del flusso turistico. Circostanze, queste, che accrescono il desiderio di indipendenza della Comunità Autonoma, già supportato da idee e posizioni alquanto discutibili e solo parzialmente rispondenti alla realtà.
Ma qual è la posizione dell’FC Barcelona rispetto alla questione dell’indipendenza?
Normalmente i tifosi blaugrana non perdono occasione per manifestare il proprio sogno di autonomia totale dal Governo di Madrid: il Camp Nou è solitamente un covo con milioni di magliette dai colori della bandiera catalana o con striscioni inneggianti alla secessione e alla “ribellione dall’oppressione”. La dimostrazione perfetta si è avuta nella serata di ieri, durante il match di Champions League contro la Juventus, quando dagli spalti è sbucato uno striscione recante la seguente frase: “SOS DEMOCRÀCIA”, accompagnato più in basso da un altro striscione, che recitava “Welcome to the Catalan Republic”, con quell’inglese chiaramente diretto ai rappresentanti Uefa.
Né sono pochi i membri del club che spesso hanno esternato le proprie convinzioni indipendentiste con dichiarazioni forti, come quelle di Pep Guardiola in merito all’imminente Referendum (“Vogliamo l’Indipendenza, Madrid non può arrestarci tutti”), o con atteggiamenti poco felici, come i vari gesti di Gerard Piqué, dal dito medio mostrato durante l’inno nazionale in occasione di Croazia-Spagna agli Europei 2016, al taglio delle maniche della camiseta della Selección al fine di eliminare la parte di essa recante i colori della bandiera della Spagna, durante Albania-Spagna delle Qualificazioni valide per i Mondiali Russia 2018.
Tuttavia, non è chiaro se l’FC Barcelona inteso come società calcistica in senso stretto, che da anni ha costruito un sentimento, ha sviluppato una tifoseria intorno al concetto di indipendenza, sia realmente a favore, o meglio possa trarre un reale vantaggio da un’eventuale secessione dal Governo Centrale, considerato che, in caso di separazione, inevitabilmente, si produrrebbero delle serie ripercussioni in capo al club, soprattutto in termini economici e di marketing. Invero, la prima eventuale conseguenza di una vittoria del SÍ al referendum sarebbe l’incredibile esclusione dalla Liga del Barcellona, oltre che del Girona e del povero Espanyol.
È vero, è difficile da credere, ma a dirlo è lo stesso Presidente della Liga Spagnola, Javier Tebas, secondo il quale “le squadre provenienti dalla Catalogna rischierebbero di non poter più prendere parte alla Liga”.
Si tratta di affermazioni forti, ma che non sono state tirate fuori dal nulla, in quanto posseggono una base legislativa di riferimento: la Ley del Deporte, la legge organica sullo sport oggi vigente in Spagna, ai sensi della quale alle competizioni sportive ufficiali sono ammessi a partecipare esclusivamente le società sportive nazionali, con esclusione di quelle extraterritoriali (quindi quelle provenienti dall’eventuale Stato della Catalogna). L’unica eccezione, infatti, riguarda le realtà sportive provenienti dallo Stato di Andorra, uniche che, seppur provenienti da uno stato Estero, possono competere a livello nazionale.
Conseguentemente, nello scenario dell’indipendenza, la Catalunya dovrebbe necessariamente costituire un proprio campionato, non potendo più confrontarsi con le squadre della ordinaria Liga Spagnola. E allora addio Clásico, addio sfida eterna con il Real Madrid per la conquista del campionato, addio marketing, addio incassi alle stelle, addio visibilità internazionale.
In tale scenario, ancor più complicata sarebbe la eventuale partecipazione alla Champions League, che potrebbe essere assicurata soltanto all’esito di una paziente e laboriosa procedura di negoziazione con la Uefa. A rincarare la dose ci ha pensato il Presidente del Consiglio Nazionale dello Sport, Miguel Cardenal, il quale ha dichiarato che l’ipotetica partecipazione del Barcellona al solo campionato catalano, nel giro di pochi anni comporterebbe il collocamento del club tra quelli europei di seconda fascia, alla stregua di Ajax o Celtic.
In altre parole, l’FC Barcelona finirebbe emarginato in una realtà troppo piccola ed inosservata, lontana dai riflettori, e non rappresenterebbe più il punto di riferimento del calcio mondiale.
Ma l’FC Barcelona vuole veramente fare i conti con conseguenze del genere? Verosimilmente no. Eppure, la contraddizione di fondo permane: critica del concetto di unità nazionale, ma contestuale godimento dei benefici da essa derivanti. E allora avanti con la partecipazione alla principale competizione Nazionale con indosso la maglietta dai colori della Senyera (la bandiera catalana), avanti con il Clásico, avanti con la Champions, avanti con il marketing da urlo che ne scaturisce.
La verità è che la gravità delle conseguenze che si produrrebbero a livello sportivo suggerisce a ciascuno dei protagonisti di sperare che nulla cambi.
Insomma, ogni sportivo ha un buon motivo per “sperare” nel NO al referendum: L’FC Barcelona non vorrà rischiare di fare i conti con le disastrose conseguenze summenzionate; la Liga Spagnola non vorrà rischiare di perdere uno dei suoi pezzi pregiati, al quale deve share e notorietà; persino il Real Madrid non vorrà rischiare di non potersi più confrontare con il rivale storico nella sfida che da anni coinvolge ed emoziona generazioni; e noi, non vorremo rischiare di non poter più assistere a quello spettacolo chiamato Liga Spagnola, così come la conosciamo.
Amedeo Polichetti
RESTA UNITA CARA SPAGNA !!!