L’attenzione sempre più diffusa agli stereotipi del maschile e del femminile, e alle cosiddette “problematiche di genere“, pare riportare all’interno del dibattito pubblico uno dei pochi stereotipi duraturi che ha liberato le donne da discriminazioni inaccettabili, rilanciato parole tabù e rivoluzionato le coscienze ribaltando i rapporti di potere tra i sessi: il femminismo. Il movimento sembra essere nuovamente sull’onda: le mobilitazioni per l’autodeterminazione femminile hanno costruito ponti da una parte all’altra del mondo, dilagando e paralizzando interi paesi. Ma cosa significa, oggi, essere o non essere femminista per una generazione di ragazze cresciute con l’idea di non avere nulla da invidiare agli uomini?

È una domanda legittima: da quando l’ecosistema sociale è cambiato, ed ora che il termine “femminista” ha assunto un’accezione negativa, non basterebbe semplicemente identificarsi in certi ambienti politico-culturali come quelli di sinistra, per sostenere l’assoluta uguaglianza e parità di ogni singolo individuo? Non basterebbe abolire il capitalismo, e modificare la proprietà dei mezzi di produzione, per abolire la tradizione patriarcale iniziata ben duemilacinquecento anni fa? Assolutamente no.

Diventare femminista in Europa negli anni Settanta significava riconoscere che “il socialismo non basta“, oltre identificarsi con le altre donne. Nell’ideologia socialista è contenuta un’idea della schiavitù femminile come risultato di un’oppressione materiale direttamente proporzionale ai mezzi di produzione e al capitalismo: ma la frattura tra ideologia democratica, libertaria e vita quotidiana seguita a essere evidente. Si insisteva che nelle società socialiste le donne subivano ancora un’oppressione specifica, proprio come in quelle capitaliste: agli uomini veniva affidato il compito di “fare la rivoluzione“, alle donne una posizione fortemente ancillare, distante da una nozione di liberazione e parità.

Queste testimonianze storiche basterebbero a sminuire la banalizzazione e gli storpiamenti che hanno subito le teorie e le pratiche del movimento delle donne: la stessa Simone de Beauvoir dimostra che anche per le europee più privilegiate la parità dei diritti ed il socialismo non hanno portato alla liberazione femminile. Di conseguenza, identificarsi in un ambiente valoriale di sinistra per rivendicare la parità e l’uguaglianza dei due sessi, e non nel movimento ideologico e di resistenza del femminismo, significherebbe non passare in prima persona a trasformare le condizioni fondamentali della nostra esistenza.

La politica ha da sempre implicitamente dichiarato guerra al sesso femminile, attraverso la conferma del dominio di una comunità storica di uomini risalente al suo atto fondativo: i suoi luoghi sono soffocanti, privi di vivacità, ostili alle donne, seguono regole stabilite dagli uomini a misura degli uomini. Per questo è molto importante che il femminismo ed i movimenti per la liberazione femminili continuino a mantenere aperta, per quanto possibile, la complessità dei temi, delle analisi, dei cambiamenti e delle pratiche politiche, affinché il personale continui ad essere politico.

Il femminismo ha ancora una raison d'etre?Non scordiamoci che le esperienze personali delle donne sono valide, ed hanno implicazione politiche importanti per la società e per la cultura. La storia delle donne è fatta soprattutto di storie individuali, ed essere in grado di collegare, nel femminismo, il personale con il politico significa rovesciare i rapporti di forza e la base sulla quale si fonda il potere: la sfera degli affetti, dell’intimità e della sessualità deve assumere il rilievo che si merita all’interno della sfera pubblica. E il femminismo ha ancora ragion d’essere, perché ha portato alla luce la presa di coscienza sul proprio corpo, sulla sessualità, sulla violenza che si annida nei rapporti più intimi, sulla maternità, e perché ha legittimato le donne a “vivere per sé”, a riconoscersi come individui e non come “moglie di”, “madre di”, “figlia di”.

Ana Nitu

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