Questa settimana la rubrica Lettere in soffitta torna con una panoramica su uno degli autori la cui forza esondante, forza romatica ancora non smette di infiammare gli animi dei propri lettori: Oscar Wilde.

Calzoni al ginocchio, capotti viola, guanti gialli, fiori all’occhiello, bottoni di diamante, il dandismo wildiano vede le sue origini nelle camicie lilla che indossava da adolescente. Wilde ha fondato la propria vita sull’originalità e la diversità, passando dalla vanità più ostentata all’umiltà assoluta. È stato autore eclettico: classicista, commediografo, poeta maledetto, dandy da salotto. L’estetismo wildiano è anche una rivolta, contro l’ipocrisia borghese e la morale costruita, contro un mondo tecnologico e conformista. È però una rivolta elegante, intelligente, intestina alla società mondana da cui Wilde era amato, che si fonda sull’ironia e il motto di spirito.

Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde nasce a Dublino nel 1854.
Viaggia molto e si trasferisce a Londra, dove diviene noto per le sue pose da dandy e i suoi abiti stravaganti. Comincia una vita di mondanità e lusso e diviene un personaggio famoso, amato perché diverso, odiato perché unico. Pubblica i suoi primi grandi successi.

Del 1891 è il celebre “Ritratto di Dorian Gray”.
Il libro è uno dei capolavori massimi della letteratura inglese. La penna di Oscar Wilde scivola sul foglio come l’olio e le parole sembrano ricamate una sull’altra. Illustre è la descrizione iniziale del giardino, di cui ci sembra poterne annusare i profumi. Il testo richiama fortemente la vita dell’artista, poiché Dorian Gray, suo alter ego, immerso in una vita esteriore fatta di pura bellezza materiale, rifiuta consapevolmente l’aspetto etico e lo sostituisce con quello estetico.

Charles Baudelaire, a proposito della figura del dandy, scrive:

<<Il dandismo non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e dell’eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. (…)  È prima di tutto il bisogno ardente di crearsi un’originalità, contenuto nei limiti esteriori delle convenienze. È una specie di culto di se stesso. (…) È il piacere di meravigliare e la soddisfazione di non essere mai meravigliati. (…) Ma un dandy non potrà mai essere un uomo volgare. S’egli commettesse un delitto, non perderebbe nulla della sua reputazione; ma se questo delitto fosse provocato da un motivo banale, il disonore sarebbe irreparabile.>>

E proprio per un delitto di passione Oscar Wilde terminerà la sua vita nel modo più cupo e forse più originale possibile. Non è facile morire in modo più eccentrico e affascinante di come si è vissuto, per un dandy che ha fatto “della sua vita un’opera d’arte“.

Eppure Wilde ci ha stupiti anche in questo: nel 1891 Wilde conosce Lord Alfred Douglas, con cui inizierà la tragica storia d’amore che firmerà la sua condanna a due anni di carcere con l’accusa di “gross public indecency”, così come era definita l’omosessualità dalla legge del tempo.
Dopo i processi, gli scandali e le accuse l’opinione pubblica inglese gli si ritorce contro: scrive parole struggenti dal carcere e dalle sue confessioni nascono le bellissime opere: “La ballata dal carcere di Reading” e il “De Profundis”, dove l’autore riesce a raccontare di una nuova fiamma spirituale che sta nascendo in lui (si convertirà al cattolicesimo in punto di morte) senza rifiutare la filosofia dandy che ha fatto da baluardo alla sua vita.

Nel De Profundis, una lunga lettera al suo perfido amante, scrive:

<<Sono stato in prigione quasi due anni. Sono passato attraverso ogni singola forma di sofferenza. […]
Ma mentre vi sono state ore in cui mi sono rallegrato all’idea che le mie sofferenze dovessero essere infinite, non avrei potuto sopportare che esse fossero prive di significato. Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia natura, come un tesoro in un campo, è l’umiltà.
È l’unica cosa che abbia in se gli elementi della vita, di una nuova vita, di una Vita Nuova per me. (…) Soltanto quando abbiamo perso tutto, ci accorgiamo di possederla.>>

Così Oscar Wilde muore il 30 novembre del 1900, tre anni dopo l’uscita dal carcere, in completa povertà e malattia, senza però, raccontano i medici, smettere di accompagnare ogni sorso di medicina con uno di champagne.

Ludovica Perina

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