“Se l’è cercata.”
“Perché?”
“Aveva la gonna troppo corta.”
“E poi?”
“Arrossiva ai complimenti.”
“E poi?”
“È uscita sola.”
“E poi?”
“E poi cosa? Che altro devi sapere?”
“Non ho capito perché se l’è cercata.”
“È una femmina, idiota, loro se la cercano sempre.”

La cronaca recente ha tirato via dal consunto baule delle vergogne l’esperienza di vita di una bambina stuprata. Tuttavia, l’attenzione mediatica di questi giorni non è per lei, ma per coloro che hanno taciuto il suo dolore prima e riversatole il marciume addosso poi.
«Se l’è andata a cercare» è la condanna che riecheggia in ogni dove, seguita da benpensanti di ogni tipo: chi annuisce, chi intollerante si erge a paladino dei diritti delle donne, chi scrolla le spalle e si sposta “un po’ più in là” – non manca nessuno all’appello, nessuno, perché in certe circostanze esprimersi è sinceramente doveroso e in silenzio non si può proprio stare.

Allora parliamo. Parliamo della nostra beneamata società, parliamo di ipocrisia, melenso buonismo e indifferenza. Parliamo, anche se a dirlo vien la pelle d’oca, di maschilismo. Parliamo di quel tribunale dell’Inquisizione che è l’opinione – o la morale? – pubblica che un giorno sì e l’altro anche lapida una strega – o donna?

Con molte probabilità, quelle persone che oggi hanno condannato chi ha osato colpevolizzare una bambina stuprata sono le stesse che il giorno precedente hanno etichettato buona donna una ragazza in abito corto, le stesse che il giorno dopo hanno consigliato al figlio di evitare la ragazzina con troppa esperienza, le stesse che mentre difendevano l’innocenza della piccola calabrese hanno dibattuto su quanto fosse grassa e brutta o semplicemente curvy la seconda classificata al concorso di Miss Italia. La nostra società gira e rigira su se stessa, e commette sempre gli stessi errori – incespica, barcolla, cade.

Essere donne in un contesto che ti educa vittima non è semplice: cresciamo abituate all’idea che non attardarsi sole quando è buio sia normale, che sia parimenti normale non preferire stradine isolate, né luoghi frequentati da troppi uomini in calore, né provocare con atteggiamenti o abiti equivoci. Cresciamo nella convinzione che non ci sia nulla di peggio dell’essere troia, brutta, grassa. Cresciamo nel mito della principessa inerme, che ha bisogno di fate, topi, elfi, ranocchi, principi – chiunque – per essere salvata. E ancora cresciamo nell’angoscia della maternità: una responsabilità troppo grande, ci dicono, perché toccasse agli uomini, un privilegio tutto nostro per cui un domani saremo chiamate a rinunciare a molto.

E siccome siamo italiane e quasi certamente cristiane cattoliche, cresciamo anche nel mito di Maria madre di Gesù – la madre delle madri, che osserva il figlio da lontano senza possibilità di essergli accanto –, e nel mito di Maria Maddalena – la meretrice che per espiare i peccati della carne smette le vesti di donna e indossa quelle di santa seguace del figlio dell’uomo –, e nel mito di Eva – la debole compagna di Adamo che cede alle lusinghe del serpente e induce Adamo stesso, soggiogato dal fascino femminile, a tradire e peccare.

Le donne, ci insegnano in silenzio, sono madri o prostitute, alleate o traditrici.

Qualcuno potrebbe obiettare che una visione simile sia quantomeno “datata”, ferma a un passato nebuloso fatto di un buon padre di famiglia, di un marito onorato e di una dote curata.
A questo qualcuno potrei dire che in parte ha anche ragione: in fondo, l’Italia è piena di donne istruite, in carriera, indipendenti, ambiziose, piena di donne a cui non importa proprio niente di Maria e della Maddalena e di Eva, perché loro sentono di essersi affrancate da questo fardello mascherato da modello.

Eppure una bambina viene stuprata e qualcuno dice che se l’è andata a cercare, e, situazione specifica a parte – in cui si è parlato di omertà e problematiche ben diverse –, non è la prima volta che accade, né sarà l’ultima. Eppure è stata necessaria l’introduzione delle “quote rosa” per costringere i cittadini a riporre fiducia anche in una figura femminile. Eppure un Ministro in gonnella è quasi sempre stato scelto, a sentir lo stereotipo comune, per i motivi più disparati tra cui quasi mai figurano le competenze. Eppure un soldato che muore in battaglia viene ricordata perché coraggiosa, certo, ma soprattutto perché bella. Eppure una donna durante un colloquio di lavoro non dovrebbe stupirsi se tra le varie domande vi siano anche “Sei sposata? Convivi? Hai figli?”. Eppure una donna che abortisce è una cagna, e a pochi importano i suoi perché, i suoi patemi, il rispetto della scelta.

Finché una gonna sarà considerata corta e la notte pericolosa, i “se l’è cercata” continueranno a perseguitare ogni singola donna e l’opinione pubblica accuserà la strega di essersi comportata male, di aver agito senza pensare, di essere stata una sprovveduta – insomma, di essere colpevole.

Il fatto stesso che esistano, e debbano esistere, numerose realtà a sostegno e a tutela delle donne e del nostro diritto all’autodeterminazione – che ancora sia necessario rimarcare che una donna non è inferiore a un uomo – dà la misura di quanto sia ipocrita la società che piange vittime che essa stessa ha generato e che seguita a generare.
Non se ne avvede neanche, l’opinione pubblica che tutto vede e tutto sa, di tramutare la donna in femmina e la femmina disubbidiente in strega. Tuttavia, ciò che questi giudici hanno capito bene – ed è ciò che li costringe a torcersi nervosi le mani – è che molte donne, da secoli a questa parte o forse da sempre, hanno preferito e preferiscono la condanna-etichetta di strega piuttosto che soccombere alle direttive dell’Inquisizione.

Rosa Ciglio

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